UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Peské Marty. Qui il sentiero si perde. La Russia come un’avventura

Alla sorgente di questa storia, c’è una leggenda. Dopo la morte della giovane figlia Sophie Dimitrievna, nata dalla relazione con l’amante Marie Narychkine – di entrambe facciamo conoscenza a un fatale ballo in maschera, che si tiene in “una notte ciscaucasica: vasta, blu, con un abito che conservava tra le pieghe il polline scintillante delle stelle” – accade qualcosa d’inatteso. Lo zar Alessandro I, signore di tutte le Russie e fra di esse di una Russia segreta e misteriosa, quella narrata qui, coincidente con una sorta di imaginifico e incantato Far East, ebbene, lo zar Alessandro I scompare.

Siamo nel 1825, l’uomo ha 48 anni. Morto, ucciso, transfuga per ignoti motivi dalla sua carica, cui concederebbe risvolti addirittura liberali? Non si sa. Poco tempo dopo, uno straniero trova rifugio in un convento del Caucaso, dove viene ribattezzato col nome di Innocenzio, ma presto scappa non avendo trovato, oltre alle faticose assoluzioni di un monaco, alcuna consolazione all’angoscia. Poco tempo dopo, ancora, un vagabondo approdato a Semipalatinsk, in Siberia, finisce agli arresti. L’uomo, che è stato schiavo a Samarcanda, incomincia a narrare le sue peripezie, anche quelle teneramente amorose, prima di scomparire di nuovo. Poco tempo dopo, e dài!, un mendicante viene accolto da una famiglia di vecchi credenti dell’Altai… Che sia uno soltanto l’inquieto personaggio, di cui avremo notizie nell’arco di un quarantennio? E lui non sarà per caso…

Se la vecchia Russia zarista fosse un romanzo d’avventura, simile per limpidezza di prosa e per movimentati eventi a un libro per ragazzi di una volta – “una volta” è riferito sia a “libro” sia a “ragazzi” – sarebbe forse questo testo dalla travagliata fortuna.

Firmato con lo pseudonimo Peské Marty da una donna – la scrittrice Antoinette Peské (1902-1985), figlia del pittore Jean Peské e (pare) discendente da una famiglia di principi mongoli – e dal marito, il giurista Pierre Marty (1901-1957), Qui il sentiero si perde (Ici le chemin se perd), apparso per la prima volta in Francia da Gallimard nel 1955, andò inspiegabilmente ignorato; ripreso da Phébus nel 1985, adesso fa capolino da noi per Adelphi nella traduzione di Daniele Petruccioli.

In veste Adelphi Qui il sentiero si perde sta benissimo per la consuetudine editoriale di prediligere i “libri unici” – anche se il nom de plume colllettivo è stato usato altre volte dalla coppia: per esempio, nel 1951 per il saggio Les terribles, imperniato su eroi della letteratura popolare come Arsène Lupin e Fantômas e sui loro creatori, e nel 1957 per Le bal des angoisses (Denoël), un giallo d’ambientazione inglese, alla Agatha Christie, ma con un forte richiamo al disturbante caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde. Qui il sentiero si perdedicevamo, spicca nella bibliografia dell’autrice francese, per la sua natura di canto d’amore dedicato all’âme russe, tanto più riuscito quanto più solletica il nostro superficiale gradimento di amanti di realistiche fiabe.

Comunque, esiste un focus profondo nel romanzo, come avverte la prefazione. “La via dell’Est […] a mano a mano che procede verso l’Oriente, culla di tante credenze, mette il cristianesimo slavo in contatto l’uno dopo l’altro con l’Islam, con il buddhismo e con l’antica tradizione sciamanica. Non ci si stupirà allora se la ricerca a cui ci invita il protagonista di questo libro, al quale capita nondimeno di frequentare diversi luoghi malfamati, si tinge qua e là di misticismo”. Non per niente il fantasma di Alessandro I finirebbe per reincarnarsi nelle spoglie del religioso Fëdor Kuzmič, venerato santo della Chiesa ortodossa russa. In questo senso, la leggenda ripresa da Peské Marty interessò il Tolstoj del racconto Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmič (1912).

Di Peské in solitaria, invece, si rammenta un altro titolo, questo però fortunato, La scatola d’osso (La boîte en os), edito in patria nel 1941 – prediletto da Cocteau, mescola ossessivamente amore e morte in un pastiche quasi gotico –, e scopriamo che ha vissuto a lungo a Parigi “in mezzo ai ricordi, pressoché ritirata dal mondo e da gran tempo disillusa quanto al credito da concedere ai giudizi del secolo” (così, sempre la prefazione) – Peské muore nel 1985 e riceve su Le Monde il più distratto dei necrologi, diviso a metà con quello del nostro Bacchelli.

Dunque, leggiamo per scoprirla e lasciamoci conquistare dal torrenziale fluire degli avvenimenti di un vero romanzo d’avventura, mescolandoci con una brulicante e bizzarra folla di gente a caccia di fortuna, neanche fosse composta dai cercatori d’oro del Far West americano: saltimbanchi, cacciatori di orsi, mercanti di pelli, ladri di cavalli, bari, assassini, zingari, ubriaconi, puttane, pellegrini, dervisci, sciamani e naturalmente demoni. Ma il titolo del romanzo? Si giustifica nel “desiderio troppo grande di solitudine” del protagonista, che lo condurrà in un altrove libero dalle miserie mondane, in un luogo dove “il sentiero si perde”. Bel posto. Bon voyage.

I social: