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Bobi e le ultime pagine di Calasso, un ritratto e un autoritratto

Forse, la sciatteria di buttare sul web e nei giornali una manciata di aneddoti qualsiasi è stata superata dall’indifferenza di un’estate arida, trascorsa con la testa altrove. Quasi che i lutti italiani di questi mesi – i lutti non causati da Covid – siano simbolicamente terminati ante vacanze con la scomparsa e la beatificazione di Raffaella Carrà.

Lei sì che ha rappresentato un’immagine dell’Italia, gli italiani li aveva toccati nel profondo, Roberto Calasso sembra di no. Sta di sbieco, l’uomo che aveva letto tutti i libri, in celebrazioni parche e un po’ loffie, sbiadite o scolastiche, quasi fatte per dovere. Forse è giusto così, Calasso era pure il diavolo come una volta dicevano in giro alcuni intellettuali organici e i protocomplottisti…

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Ricordo Calasso e Fleur Jaeggy arrivare la domenica dopo mezzogiorno alla Feltrinelli di via Manzoni, quella che non c’è più. Calasso – un cognome per nominarlo al contrario dell’altro Roberto, Bazlen che era Bobi, un soprannome -, parlava con i librai, guardava i libri degli altri e com’erano esposti i suoi; potrei aggiungere a conferma di una gestualità imperiale – ma forse si sovrappone alla memoria un famoso disegno di Pericoli – che magari gli Adelphi li spostava, per piazzarli meglio, ma non potrei giurarci. Come avrebbe potuto disporli poi? Seguendo gli accostamenti di testi – imperscrutabili per un lettore di “gregge antigregge” – contenuti negli elenchi di libri di Bazlen?

Avevo allora qualche stupida scusa per disturbarlo: come mai non aveva ancora pubblicato quel tal gruppo di poesie di Iosif Brodskij, che in fondo gli dedicava carmi “in prospettiva” e aveva sposato Maria Sozzani, una sua “redattrice”? Mi poteva per favore firmare Ka, che era appena uscito? Recupero oggi la copia, la data segnata dalla stilografica di Calasso è ottobre ’96, sono passati venticinque anni. Incredibile – ma questo stupore riguarda me (e lo comunico privatamente anche a Aldo e alla Simo).

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Il libro Bobi di Calasso è uscito, insieme ai ricordi d’infanzia di Memè Scianca (entrambi da Adelphi, naturalmente), il giorno prima della morte del suo autore per una coincidenza che è il segno di un senso nascosto delle cose o forse del fatto che tutto alla fine si riassume in un libro.

Bobi è il definitivo ritratto dell’outsider Bobi Bazlen – e probabilmente contiene un secondo ritratto, a lato o sovrapposto, un autoritratto: annerite gli spazi coi numeri, unite i puntini. Chi è lo “sciamano travestito in abiti borghesi”? Anzi, oggi che la parola sciamano è inusabile perché deteriorata, chi è la persona più veloce a cogliere “il dettaglio luminoso” (Pound)?

Cugino e mentore di Calasso, il triestino Bazlen è da tempi non sospetti il guru e il genio acclamato da una categoria di irregolari e falsi irregolari, pataccari e finti ciechi toccati da dio, che affollano il parterre da poveracci della letteratura italiana: ma ciò non distragga dal riconoscere a Bazlen le qualità presentate, in brevi paragrafi, come eccezionali. Impossibile non seguire per un’ultima volta Calasso alla scrivania dove ha scritto tutti i suoi libri, dove si nota un oggetto sconosciuto donatogli da Bazlen, forse una caffettiera esplosa, la cosa che più gli ricorda Odradek (sì, Kafka c’entra sempre).

Adelphi nasce con Bobi, scrive Calasso, che fa a tempo a vedere stampato un solo libro, quello di Alfred Kubin, L’altra parte, primo di quei leggendari “libri unici” che Bazlen prediligeva. Bobi scontento dei Saggi, feroce con i Bettelheim e la “massa antimassa”. Per sempre nemico delle parole integrated e adjusted. Lui per cui, al contrario dell’intelligenza tutta del dopoguerra, non era pericolosa la parola irrazionale.

Bazlen muore all’improvviso a 63 anni all’Hotel Torino di Milano il 27 luglio del 1965. Calasso muore un giorno dopo nel calendario, il 28 luglio del 2021. Una quasi coincidenza che non vuol dire probabilmente nulla.

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Il necrologio di Calasso apparso su La Verità, firmato da Marcello Veneziani, era ispirato, e se ne capisce il perché. Dietro un bel titolo, L’editore mago che rendeva inediti anche i libri già pubblicati, sottolinea che Adelphi (cioè Calasso dopo Bobi) fu, anche senza opporvisi scopertamente, “l’alternativa all’egemonia culturale storicista e progressista, scientista e razionalista, nell’editoria”. Partì con Nietzsche, si sa, ma…

Il titolo dell’articolo non vuole essere solo un applauso, come può apparire: segnala l’abitudine forte in Calasso di non riconoscere i precedenti di un autore – soprattutto se contiguo alla destra o a “inaccettabili” ambienti reazionari, nota Veneziani – rilanciandolo ripulito dal simbolo (stavo per scrivere brand) Adelphi.

Ideologie a parte, credo che tutti noi ci siamo fatti incantare e siamo stati indotti a comprare da Calasso un libro nuovo che avevamo già – l’editor Matteo Codignola racconta a Repubblica che era perplesso sulla determinazione di Calasso a riesumare Somerset Maugham in quanto le biblioteche degli italiani ne erano già piene. Questa abilità, mi chiedo ora, apparteneva allo sciamano (pardon per il termine) o all’uomo che sapeva celarsi dentro una giacca Armani?

Ho citato Veneziani perché il suo ricordo fa balenare oltre a quella del seduttivo editore l’immagine dell’altro Calasso, quello “di destra”, ma anche lo “gnostico” inviso agli ambienti cattolici, l’elitario ed esoterico intellettuale anticristiano, la cui sulfurea azione sotterranea ha portato giornalisti sprezzanti del ridicolo come Maurizio Blondet a farne in un libello, Adelphi della dissoluzione (Effedieffe), un “satanista” tout court, dedito al sacrificio umano e rituale. Diavolo d’un Calasso, cui non sarebbe bastato inseguire in Oriente il Re di Guénon e rifondare l’archivio del sapere su cui oggi facciamo archeologia, vivere nel farsi dei miti in Grecia o a Parigi, indicarci i magi corrucciati nascosti tra gli angeli del Tiepolo o la credulità dell’homo saecularis assente il sacro.

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Spesso, in quelle domeniche di tanti anni fa rivedevo, poco dopo averli incrociati alla Feltrinelli, Calasso e Fleur Jaeggy che sedevano da Bindi in corso Magenta, chiacchieravano amabilmente, forse prendevano un the. Io guardavo da un tavolo lontano l’uomo che andava per “bettole” con Bazlen e che aveva letto tutti i libri: curioso, a mio modo, come una sorta di ottuso turista o addirittura come un fan immerso in un attuale già innominabile. Lascio a un prossimo post qualche parola su Memé Scianca.

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