È strepitosa in Georges Simenon la precisione rituale cui si affidava per redigere un testo via l’altro. Lo ha raccontato lui stesso e, non bastasse, ha fornito pure pagine autobiografiche per spiegarci chi era, narrando il suo umano pedigree – e tanto più è stato sincero quanto più si è autoromanzato.
Ma l’ombra su di lui rimane sempre e si ripresenta a ogni romanzo che ritorna sugli scaffali. Mi è appena capitata tra le mani una famosa foto di Simenon: raffigura un simpatico ometto munito di pipa, così lontano nell’immagine dalle ossessioni che rimbalzano dai suoi libri; se la ride a fianco di Arnoldo Mondadori, suo editore italiano, e non ho nessun dubbio che, da uomo meticoloso e conoscitore del mondo qual era, Simenon gli abbia appena detto qualcosa di elogiativo e che Gino Cervi era il non plus ultra tra i Maigret…
Aprendo La porta – in libreria per Adelphi, tradotto da Laura Frausin Guarino – siamo subito da un’altra parte, rientriamo nell’ombra. Finito all’alba dei Sessanta e ambientato a un passo da Place des Vosges a Parigi, mostra lo scrittore al suo meglio: Simenon può raccontare senza censure di un inferno privato (sartriano?), quello di un mutilato di guerra, privo di entrambe le braccia, che vive serenamente, si fa per dire, con una moglie deliziosa che ha accettato, si fa per dire, la menomazione del marito.
Il breve romanzo è un piccolo capolavoro perché il belga semplifica al massimo, “taglia all’osso” la storia, che si svolge in una sola casa, in una sola testa, come se si trattasse di uno studio clinico, in cui alla fin fine non servono nemmeno dei colpi di scena per procurare quello (a dire il vero telefonato) che chiude il romanzo.
È un romanzo in cui a tratti, quasi scorgendo la trama a rovescio, il lettore può immaginare Simenon che scrive, valutare con lui frase dopo frase come provoca un rovello o agita un sospetto, in che modo affida i personaggi al loro destino – ma è un ulteriore pregio del belga o la rivelazione di un difetto dello stakanovista artigiano? Comunque: nei libri di Simenon molto spesso la scoperta del fragile nulla di cui viviamo si raggiunge attraverso un’implosione invece che per esplosione.
Dopo aver scritto la parola fine, come spiegava, Simenon chiude la pagina svuotato, e io immagino che, vergato il the end de La porta, sia rimasto a lungo fermo alla scrivania a guardare fissamente il vuoto, pensando alla débâcle di Bernard e di Nelly, disperati piccolo borghesi protagonisti de La porta, e intanto forse anche alla sua. Prima di riaccendere la pipa e di ricominciare a vivere e scrivere da capo.