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Allonsanfàn
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Tre nuove songs di Bob Dylan. Sogni e incubi di un profeta

Tre canzoni, rilasciate in piena pandemia, hanno anticipato il nuovo album di Bob Dylan, in uscita in questi giorni. Qui, due chiacchiere sulle nuove… poesie.

Murder Most Foul Con voce di ranocchio (croak croak) His Bobness, cioè sua maestà Bob Dylan, Nobel prize winner e parafulmine di ogni poeta rosicante del globo, offre in streaming un inedito poema cantato di 17 minuti.

Il murder, che allude all’Hamlet shakespeariano, è quello di Dallas, dove muore the King (in questo caso John Fitzgerald Kennedy, non Elvis): partendo ancora una volta dal grande trauma americano, da Dallas 1963, Dylan sgrana in un rosario laico i nomi di artisti, celebrità, canzoni, film venuti alla ribalta nella cultura popolare negli anni seguenti al regicidio.

Come un ritrovato bardo della Beat Generation, il Nobel prize winner di Duluth parla del nostro immaginario: rimesta parole e nomi nei campi dello show e dell’illusione, della realtà e del sogno che, in filigrana, ha accompagnato una generazione. Senza retorica, in una song spettrale, perché di fantasmi (e forse di lui per primo, sembra dirci) Dylan sta cantando.

I Contain Multitudes Pochi giorni dopo, è arrivata a sorpresa una seconda canzone di quattro minuti, e stavolta il titolo viene dal canone della poesia statunitense, Leaves of Grass. Io sono l’America e l’America sono io, diceva Walt Whitman. Era il suo tema, la nota costantemente ribattuta. 

Ecco. Dopo aver ascoltato Murder Most Foul si precisa l’impressione di un progetto unitario. Alla soglia degli 80, il Nobel prize winner di Duluth riscopre un’affinità con Whitman – ci era arrivato da ragazzo passando per Guthrie – come Ginsberg, che di WW possedeva il respiro prosodico, si era sintonizzato sulle visioni di Blake, pure lui citato nella nuova canzone.

Diversamente da Ginsberg, Dylan non si presenta come la reincarnazione di un altro poeta, ma come il suo fantasma: ne è lo spettro e insieme interpreta una sorta di Fool dell’America che sta cantando. La distanza (a volte ironica) da tutto e pure da se stesso è sempre stata un segno della specifica coolness del suo essere poeta.

Ripassiamo quello che c’era scritto sulla quarta di copertina del famigerato libro di traduzioni Blues, Ballate Canzoni (Newton Compton, 1972), cioè le parole sulla inner sleeve di Bringing All Back Home.

i would not want t’ be bach. mozart. tolstoy. joe hill. gertrude stein or james dean/they are all dead. the Great books’ve been written. the Great sayings have all been said/I am about t’ sketch You a picture of what goes on around here some-times (…). my poems are written in a rhythm of unpoetic distortion/ divided by pierced ears. false eyelashes/sub-tracted by people constantly torturing each other. with a melodic purring line of descriptive hollowness — seen at times through dark sunglasses an’ other forms of psychic explosion. a song is
anything that can walk by itself/i am called
a songwriter. a poem is a naked person . . . some people say that i am a poet…

Vede tutto, Dylan, venerabile e vulnerabile vecchio, poeta-Fool di I Contain Moltitude se anche qui ciò che nomina esiste per l’attimo in cui lo dice, in un gioco tra luce e tenebre.

Dylan, Shakespeare, Whitman, Blake, Ginsberg… Vale la pena leggere come una dichiarazione di poetica il tweet con cui His Bobness (croak croak) ha annunciato la canzone sulla “moltitudine dei sé”: una serie di #hashtag doppi, giustapposti o contrapposti, #today e #tomorrow, #skeletons e #nudes, #sparkle e #flash, #AnneFrank e #IndianaJones, #fastcars e #fastfood, #bluejeans e #queens, #Beethoven e #Chopin, #life e #death. 

False Prophet. E le canzoni diventano tre. Il Nobel prize winner di Duluth sceglie per presentare il nuovo singolo e il nuovo album, Rough and Rowdy Ways (il primo da Tempest, 2012), l’immagine di uno scheletrico damerino, che brandisce una siringa. Stiamogli alla larga, dal losco figuro, dico…

È esorcizzato peraltro dal testo di questo rough blues: His Bobness promette sincerità (I ain’t no false prophet) e indica a tutti, senza farlo esplicitamente, una via di autenticità, che può essere pure l’ammissione di un’eterna sconfitta (Dylan legge Nietzsche?). Ogni mattina infatti tutto ricomincia, deludendoci, non appena abbiamo aperto il cuore al mondo (I opened my heart to the world and the world came in).

Al ripetersi di giorni tutti uguali, Dylan risponde con la consueta mossa in arrocco: una scelta di non appartenenza (No, I’m nobody’s bride) e di solitudine: I go where only the lonely can go – con citazione dal vecchio amico Roy Orbison?

Però Dylan è, se gli crediamo, un vero profeta, non essendo un profeta falso. Può dirci che la nostra libertà, oltre che nella solitudine, si trova per sempre fuori dal tempo quotidiano: Can’t remember when I was born / And I forgot when I died.

Qui una riflessione sulla diffusione della poesia di Dylan in Italia al tempo che fu.

Credit: Xavier Badosa

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