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Allonsanfàn
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Ohio di Stephen Markley: diventare grandi in Usa, all’inferno con nostalgia

Esiste una striscia tra letteratura di consumo, di genere, e romanzo autoriale tout court, che i narratori USA sono molto bravi a percorrere. Imbrigliandoci e imbrogliandoci i lettori (è un capolavoro, ma no è un giallaccio), i critici (ecco l’opera che meglio fotografa l’America d’oggi! Ma va’, l’ha scritta un ghost writer), e pure se stessi: be’ sì, ammettono i più arditi di loro, ho provato a scrivere la Great American Novel… Penso a Don Winslow, e al primo James Ellroy, non a Joyce Carol Oates o a Donna Tartt.

Chi marcia in Italia su questa feconda striscia di ambiguità è Einaudi Stile Libero, che ha editato da poco uno dei titoli più interessanti di stagione: Ohio di Stephen Markley. Titolo che dimostra come quanto detto sopra sulle divisioni tra alto e basso, destra e sinistra, piatto e rotondo, può essere ridimensionato a chiacchiera e accademia, ignorato dalla potenza e dall’intensità e dalla piacevolezza, why not?, del racconto.

Pur se Markley, diplomato al già leggendario Iowa Worker’s Workshop, è un quasi esordiente e si muove molto agilmente tra i cliché, e in un campo, anzi in un campus, iper esplorato dalle lettere made in USA.

Ohio racconta in cinque parti la perdita dell’innocenza e la nostalgia di un gruppo di studenti di New Canaan, cittadina della cosiddetta Rust Belt, decaduto e spopolato centro dell’industria siderurgica del Paese. Partenza nel 2013 – i funerali di uno di loro, militare morto in Iraq -, cui segue un ritorno al futuro sei anni dopo, da visuali diverse (che poi si moltiplicano), con quattro automobili e quattro personaggi che convergono sulla cittadina dell’Ohio. Si incroceranno fino a comporre alla fine di 530 pagine il “da dove siamo partiti”, il “che cosa abbiamo fatto” e pure il “perché siamo arrivati fin qui”. È il montaggio virtuosistico, tra rewind e flash forward che lèvati, la cifra stilistica più sorprendente del libro.

Al termine, dicevamo, abbiamo letto il cosiddetto destino di una generazione, e conosciuto tipi difficili da scordare – almeno fino al prossimo presunto Grande Romanzo Americano. Elenco. L’eroe di guerra Brink, il radical tossico Rick, il songwriter Ben, l’innamorata delusa Stacey (di Lisa, in perenne fuga), il timido guerriero Dan, che forse vede il mondo attraverso il suo occhio di vetro, pegno pagato alle battaglie farlocche dell’America di Bush, e poi ancora la distruttiva Kaylyn e la fragile Tina, il cui coinvolgimento con il vecchio capitano della squadra di football accende i fuochi d’artificio finali.

Stephen Markley

Markley, sceneggiatore e giornalista, vive a Los Angeles, e ha già scritto due memoir: Tales of Iceland, storia di viaggio, divertente e per forza cool, in un Paese diviso tra ripresa economica (siamo nel 2008) e spaccio di antiche leggende, e lo scanzonato Publish This Book: The Unbelievable True Story of How I Wrote, Sold and Published.

Ohio lo situa adesso tra i più scafati novellieri del diventare grandi in USA – di ogni levatura: da Eugenides a Wolfe, da Tim O’Brien a Franzen – e, in fondo, a voler insistere sulla suspense crescente della storia, pure di murder. Ma è proprio il murder che, insieme a una certa retorica che resuscita persino il cinema civile anni Settanta, gli impedisce di uscire di netto dalla striscia stretta di cui dicevamo all’inizio. Ma chissenefrega, appunto. È roba buona e benissimo tradotta da Cristiana Mennella.

Altre notizie, sul sito di Markley. Nel frattempo mi arriva e mi conforta il tweet di un vecchio amico di foto, Todd Connelley, pubblicitario e sceneggiatore di Dallas: “The Tina Ross section is a masterclass in how past determines present. Great read…” Ri-appunto.

IL LIBRO Stephen Markley, Ohio, Einaudi Stile Libero Big

La foto della cover è di Harlan Erskine

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