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Il libro Una terra promessa e il docu The Final Year. Obama, che fatica fare il Potus

Usurante, stancante, frustrante. Fare il presidente degli Stati Uniti (Potus, President of the United States) è un lavoro difficile come testimoniano le foto di Barack Obama prima e dopo gli otto anni alla Casa Bianca. Un lavoro che l’ex presidente racconta nella sua autobiografia (per ora è uscito il primo volume) Una terra promessa (Garzanti) e nel documentario The Final Year su Netflix.

In Una terra promessa parte dalle prime esperienze politiche del futuro Potus, da una carriera che sembra non decollare, i problemi di soldi, fino alla svolta dell’elezione in Senato. Da qui sembra che la candidatura gli caschi un po’ in mano. Obama vede crescere popolarità e consenso, inaugura la convention dei Democratici ed è ancora un perfetto sconosciuto e poi batte Hillary Clinton alle primarie.

Autobiografia Barack Obama

Quando arriva la campagna presidenziale tutto fila liscio fino a quando non compare sulla scena Sarah Palin. Quella che noi in Europa abbiamo sempre considerato una candidata impresentabile fa invece capire a Obama che qualcosa sta cambiando. La sconosciuta Palin, che arrivava dall’Alaska, lo Stato più conservatore degli Usa, scuote le folle. I suoi comizi sono molto affollati a differenza di quelli del mite (ma il giudizio di Obama è più articolato) John McCain. Palin diventa la candidata sostenuta dal Tea party, quella galassia di gruppi conservatori che, secondo alcuni illuminati commentatori italiani, non avrebbero mai portato al successo i repubblicani.

Bisognava lavorare al centro e invece con gli anni l’estrema destra americana è riuscita a eleggere il suo presidente. A distanza di anni Obama capisce che tutto è partito da lì, dalla sua candidatura. Le polemiche continue sul suo luogo di nascita e il colore della sua pelle hanno scavato un solco profondo, difficile da rimarginare in tempi brevi. Qualcosa di simile d’altronde lo abbiamo visto anche in Italia. Quando nel governo Letta fu nominato ministra per l’integrazione (non esattamente un incarico di primo piano) Cécile Kyenge la reazione della Lega fu fortissima.

Obama, che su di sé sente tutto il peso delle aspettative che l’hanno portato alla vittoria, tira dritto, ma il clima nel Paese si riflette sull’atteggiamento dei repubblicani al Congresso che hanno quella che il Potus definisce “una reazione emotiva, quasi viscerale”. Lo spostamento verso posizioni estreme, senza nessuna possibilità di collaborazione è velocissimo.

A quel punto la presidenza si fa difficile perché le proposte di legge devono essere approvate dal Congresso dove si cerca sempre di ottenere la maggioranza più larga possibile. L’Obamacare, che allarga la copertura sanitaria a milioni di americani, è un banco di prova molto difficile. Obama si trova a dovere fare a meno della collaborazione dei repubblicani moderati che sentono sul collo il fiato di elettori sempre più incattiviti contro il presidente che vuole portare il socialismo negli Usa. E anche i democratici sono preoccupati del loro seggio. Negli Usa la disciplina di partito è molto più labile e Obama deve sottostare alle richieste di senatori di Stati che contano come il due di picche perché anche il loro voto è importante.

Un problema non solo di Obama.
In mezzo ci si mette anche una pandemia dovuta al virus influenzale H1N1 che nel 2010 provoca negli Usa oltre 12mila morti. Pandemia che, come era venuta, se ne va senza vaccino a metà dell’anno.
La sorpresa e il siparietto familiare alla notizia del Nobel della pace sono momenti divertenti di un racconto dove si scopre che Joe Biden non è così amico dei militari di Washington e che il presidente e il suo staff vivono con l’ossessione degli indici di popolarità. Che dipendono da una legge, un discorso, una sola parola.

Un giorno la polizia arresta una persona di colore, un docente universitario che non riesce a entrare in casa sua e viene scambiato per un ladro. Il dubbio è che il colore della pelle abbia inciso nell’atteggiamento dei poliziotti e Obama definisce stupida l’azione delle forze dell’ordine. Finisce che Obama deve scusarsi con il poliziotto e invitare i due alla Casa Bianca per una birra di riconciliazione. Ma ammette che la sua popolarità quel giorno prese una legnata tale che non riuscirà mai a recuperare fino in fondo.

Un dettaglio, quello degli indici di popolarità, presente anche in West Wing (Netflix e Amazon), la serie un po’ datata, un po’ troppo di buoni sentimenti, ma che è un piacere seguire.

Obama impara che per ogni questione non esiste una soluzione perfetta al 100 per cento e che ogni mossa, agire o non agire, comporta una serie di probabilità di successo o insuccesso e la possibilità che la situazione diventi anche più grave. Questo è particolarmente evidente in politica estera, forse l’aspetto più criticabile della sua presidenza, che è l’oggetto di The Final Year, il documentario su Netflix. Non è un’opera da ricordare se non per la parte finale quando si arriva all’elezione di Trump. C’è l’entusiasmo per la probabile elezione della Clinton e la cocente delusione.

Ben Rhodes, uno dei più stretti collaboratori del presidente quella sera non riesce a parlare, le parole non escono dalla sua bocca. Ha già capito quale disastro si era abbattuto sugli Usa.

 

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