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Allonsanfàn
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Il Grande Silenzio. Don DeLillo ha scritto il romanzo del mondo che si ferma

Nella vita di una volta – nel romanzo breve Il silenzio di Don DeLillo (Einaudi) – uomini e donne viaggiano e scrutano su un video d’aereo le esatte coordinate di volo. Scrivono appunti su piccoli taccuini neri. Prevedono le mosse all’arrivo. Oppure si riuniscono a Manhattan in un appartamento nell’East Side per seguire il Super Bowl: le parole e i gesti dello sport sono per loro una promessa di solidale compagnia mentre attendono gli ospiti. Bevono whisky torbato nello spot di se stessi. Oppure nella vita di una volta uomini e donne ricordano di aver passeggiato in antichi palazzi romani, guardando le pitture alle pareti, gli angeli dipinti sul soffitto, i vestimenti del Nazareno. Riflettendo sugli enigmi dello spazio tempo, possono credere sia una boutade e non una geniale profezia quella di Einstein sulla Quarta guerra mondiale – si combatterà con pietre e bastoni.

Poi succede qualcosa. È il contrario di un clic che accende, è un impercettibile clic che ferma tutto. Schermi neri di aerei e di tv. Black out. Fuori uso i pratici algoritmi che governano – secondo il senso comune – il mondo e noi, o viceversa. Hardware e software, anima e corpo del nostro universo. Dopo la pandemia del 2020, il grande silenzio del 2022, quello che avvertiamo in anticipo di un anno, oggi, mentre leggiamo Don DeLillo (New York, 1936). Non è il “solito” silenzio di Dio, quello dello scrittore americano – Dio non c’è o non c’entra – ma quello di una enorme macchina allo stop.

DeLillo applica la sua scrittura acuminata e precisa, fatta di brevi segni-segmenti che si imprimono con una cadenza e un’incisione inconfondibile scendendo (come tutte le scritture occidentali ma qui di più) dall’alto verso il basso sulla pagina bianca – chiunque abbia visto fotografato un dattiloscritto di DeLillo non può confondere il suo stile di discesa con il solito “tutto pieno” multistrato tipo “colorate gli spazi” da copia e incolla e continua cosmesi alla tastiera del computer. Usando una definizione enigmistica, il DeLillo touch è più simile a un “connecting the dots”, insieme iper razionale e arcano.

Allo stesso modo – e accade anche ne Il silenzio – è certa l’applicazione feroce a un tema forte del nostro tempo, che sia lo smaltimento dei rifiuti in un inferno post industriale o la finanza internazionale, l’arte contemporanea o la tecnologia della comunicazione, o quella tout court, da decostruire dopo averne evocato la distruzione, come accade in queste cento pagine.

Alla calata del silenzio, per l’atterraggio di fortuna causato del black out, la coppia formata da Jim e Tessa va in ospedale a farsi medicare, mentre gli amici – una professoressa di fisica in pensione, il marito e un ex studente visionario – li danno persi per l’ormai impossibile rito del Super Bowl. Dopo aver detto addio alla vita di una volta con un meccanico atto sessuale, i due stanno in piedi come androidi – reificati, in via di “zombificazione” – mentre tutto ma proprio tutto si sta stoppando. Tac, neon, taxi, luci, internet, e-mail, l’elenco è interminabile. La donna dell’accettazione in ospedale tiene ai superstiti un discorso filosofico sulla perdita dell’identità, sull’insignificanza che trionfa non appena si spegne il mondo.

Frammenti di dialogo. “Un guasto in una centrale elettrica. Questo è quanto”. “Intelligenza artificiale che tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo”. Potrebbe essere “soltanto” questo e insieme vengono perse – DeLillo cita in quest’ordine con civetteria distruttiva – taumatologia, ontologia, escatologia, epistemologia, metafisica, fenomenologia, trascendentalismo, teleologia, eziologia ecc. ecc.

Costretti alla “insonnia di massa di questo tempo inaudito” la gente esce per strada quasi a branchi, sente persino una sorta di liberazione – dall’io? Dalla normalità? E individualità e normalità – vista nelle minuzie e a tratti in modo struggente – sono i bersagli principe delle pesate e implacabili parole di De Lillo, prima nelle scarne scene d’insieme – l’aeroplano, l’appartamento – poi nei finali monologhi individuali. Individualità, normalità, il loro abbandono che è il centro del romanzo.

Inutile riassumere, commentare, spoilerare l’Apocalisse. Come è inutile nel racconto cercare i colpevoli del silenzio improvviso – i cinesi o chissà quali hacker. Si può solo leggere: mai come oggi conviene affrontare la pagina di DeLillo, scendendo di parola in parola in corda doppia nel crepaccio, con la sensazione orribile che sia un precipitare disperatamente e senza paracadute – non è forse DeLillo l’autore del romanzo sull’11 settembre chiamato Falling Man (2007) come l’omino che cadeva da una delle Torri a testa in giù?

DeLillo è così bravo che non sorridiamo neppure quando nel disastro totale a un passo dall’essere zombie un personaggio (beckettianamente?) si alza in piedi e dice: “La Groenlandia sta scomparendo”. E quando un altro zombie, simile a noi, prima di dirsi taci per sempre, vorrebbe citare – che cosa non è la nostalgia – una frase del Finnegans WakePrima che il sockson luccasse le dure. Come no.

IL LIBRO Don DeLillo, Il silenzio, traduzione di Federica Aceto, Einaudi

A margine Ho letto critiche all’ultimo Don. C’è la snob su Il Foglio che ama i DeLillo solo sopra le 500 pagine e chissà perché non legge libri con la parola “silenzio” nel titolo… e chi sui social trova poco realista la descrizione del black out (be’ ma non si spaventano?)… L’unica cosa su cui concordo con i detrattori di questo romanzo è che non c’è poi ’sta grande preveggenza. DeLillo qui – in fondo e nel profondo – parla della morte di un uomo, forse della sua stessa morte. E lo fa a modo suo, letterariamente – o vogliamo giudicare tutto col metro verista del nostro pianerottolo? Da una Gita al Faro all’Ulisse… Comunque: sarà da indovini dire che tutti moriamo?

 

 

Credit: “man of letters” by adm is licensed under CC BY-SA 2.0

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