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Allonsanfàn
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Da ritrovare. Marina Jarre bambina ne I padri lontani: i ricordi e la formazione di un’outsider

Quando ho letto I padri lontani (riedito ora nei Bompiani tascabili) di Marina Jarre (1935-2016), forse per consonanza del tempo preso in esame e del comune legame a un ambiente piemontese, mi è venuto in mente un passo di Natalia Ginzburg tratto da Lessico famigliare (Einaudi, 1963): “…quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra…”.

Torino a parte, che per Ginzburg è una certezza e per Jarre un approdo – vi ha vissuto e insegnato dal 1949, dopo aver cambiato cognome (il suo, Gersoni, con la “g” dura, per quello dell’ingegnere che ha sposato), vi ha avuto i quattro figli e i nipoti – gli anni narrati dai due romanzi sono pressapoco i medesimi.

Ginzburg scrive la sua appartenenza a una famiglia della borghesia tra il ’20 e il ’50 del Secolo breve, Jarre racconta – scrivendo dopo (il libro esce per la prima volta nel 1987) – la sua infanzia e la sua adolescenza solitarie, scheggiate e frante in cambiamenti continui, come evidenzia anche la forma del racconto. Che è costruito sul lampeggiare dei ricordi e delle percezioni infantili che danno un’illusione di conoscenza del mondo: Jarre passa dalla Lettonia alla comunità valdese di Torre Pellice; si sdoppia nel divorzio tra un padre elusivo, ebreo di Riga, poi vittima dei nazisti, e una madre di religione valdese, la professoressa Coïsson; si trova divisa nell’affetto e nella diffidenza di nonni diversissimi che la ospitano insieme alla sorella Sisi – deuteragonista e a volte antagonista della vicenda – ricordi e percezioni, dicevamo, con cui la scrittrice viene a formare, componendo un Bildungsroman, la sua identità.

Ecco: Ginzburg scrive in un pieno e diventa se stessa staccandosi a modo suo dalle “formule magiche” di una famiglia mentre le celebra; Gersoni-Jarre inventa se stessa in un vuoto, incarnando le parole in una lingua, l’italiano, che possiede soltanto a partire dai dieci anni di età. Diventa una donna rigorosa e apparentemente padrona del proprio destino dopo averci presentato una sorta di commovente e irriducibilmente “non conformabile” bambina.

Nella seconda delle tre parti temporali in cui è diviso I padri lontani – la cui lontananza invece che una mancanza può risultare infine un sollievo – spicca per esempio l’indagine religiosa, acuta e spaventevole (non solo per una bambina) sul Dio dei cattolici e su quello valdese all’ombra del catechismo e delle montagne dai nomi evocativi di Torre Pellice; colpisce poi per come prende forma e corpo, alla caduta del fascismo, la partecipazione alla Resistenza analizzata nella chiave individuale che è la posizione indomita in cui si svolge tutto il racconto.

Per queste caratteristiche, di ricerca e di “vissuto”, I padri lontani può essere impegnativo da leggere, costruito com’è in un corpo a corpo di Jarre con i frammenti di coscienza, raggiunti e assemblati attraverso intromissioni del cuore piuttosto che gelati nella prospettiva di uno scavo razionale. Ma un po’ di fatica dà un motivo in più per appropriarsi di un libro a lungo dimenticato e che dovrebbe essere il primo di una riedizione dell’opera di Jarre da parte di Bompiani.

Jarre mi riporta di nuovo alla memoria Ginzburg – da cui pure è tanto distante – per questa frase de Le piccole virtù (Einaudi 1961): “L’artista non scrive una frase perché è bella, ma perché è vera. E non è un artista chi sacrifica la propria verità per amore di una bella frase o una bella parola”.

Dichiarazione di poetica condivisa. Con questo non intendo mettere Marina Gersoni Jarre all’ombra di alcuno, anzi. Giustapponendola a un’altra grande scrittrice, ne faccio solo risultare l’inclassificabile – per quanto pacata in superficie – affascinante singolarità, e viene a conferma anche la terza parte de I padri lontani, dove il Bildungsroman diventa più semplicemente la storia di una donna.

La mia vita è stata un’unica giornata, a sera chiuderò l’uscio e andrò a dormire. In questa sola giornata si raccoglie quel dolore nudo, spoglio degli orpelli delle cerimonie e dei ricordi personali, ma come riversato in un bacile che continua a colmarsi dell’indistinto e non distinguibile dolore di tutti” (da Il silenzio di Mosca, Einaudi, 2008)

IL LIBRO Marina Jarre, I padri lontani, introduzione di Marta Barone (Bompiani)

 

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