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Lawrence Osborne. Nella polvere del Marocco, al crocevia dell’odio

I lettori di Lawrence Osborne, al pari dei suoi personaggi, hanno ascoltato su Spotify la musica folk nordafricana e hanno consumato di letture Il tè nel deserto di Paul Bowles – di sicuro hanno visto il film di Bertolucci.

Quest’inconveniente – Osborne “deve” incantare la platea ex novo con un paesaggio che non le è più “esotico” – viene denunciato con un pizzico di civetteria e superato brillantemente nell’avventura marocchina di Nella polvere (Adelphi, uscito come The Forgiven nel 2012), a riprova che lo scrittore inglese di stanza a Bangkok e qui in vacanza a est di Marrakech ama sfidare sé stesso e insieme chi lo segue.

Il gioco di prestigio ha essenzialmente a che fare con la scrittura perché Osborne riesce ad allestire ai giorni nostri scenari credibili dove non vige il post-emingueiano nel senso che ne dà Antonio Franchini: i personaggi sono tuttora “eroi” seppure in senso debole e possono confrontarsi individualmente con il loro destino, viverlo davvero (anche quando preferirebbero di no) come un’avventura.

Comunque. Parrebbe la sabbia ignara del tempo e, con valenza metaforica, tramutata in polvere o pulvis, la nemesi della coppia di inglesi su cui si apre il romanzo: invitata in Marocco a un week end di festa da due amici gay e nababbi, nell’andarci si rende colpevole di tirar sotto all’automobile un ragazzo del luogo (fine dello spoiler).

Ed è la stessa sabbia/polvere/pulvis la miglior musa di Osborne, che ne esalta l’ormai ampio bagaglio di autore irregolare e mutante – saggista, diarista, scrittore di viaggio, esperto di thriller, narratore in un modo o nell’altro di una serie di pratiche piuttosto ignote alla nostra vita da travet: per esempio, la prostituzione in Thailandia, il gioco d’azzardo nichilistico e compulsivo di Macao, la capacità di dialogare ovunque con i fantasmi…

Tutto ciò e di più ha portato a paragoni con alcuni grandi della letteratura patria, zio Willy Maugham e Graham Greene in primis, così come con ogni inglese che abbia raccontato storie di Kingdom, senza trascurare l’accostamento a nobili artigiani internazionali, da Raymond Chandler – è ancora inedita da noi la Philip Marlowe novel firmata da Osborne – a, butto lì, pensando proprio a queste pagine, Patricia Highsmith.

Comunque. Quando distribuisce le carte per la seconda mano della sua partita, a pag. 155, molta sabbia è passata granello per granello nella clessidra-macchina da scrivere di Osborne e la tensione è altissima: il senso di minaccia, la mancanza di comprensione, l’odio potenziale tra i personaggi, diversi e divisi per etnia, patrimonio e sesso o orientamento sessuale – non necessariamente in quest’ordine – può provocare (o aver provocato nei rewind) più di un atto di violenza, ingiustificato o ottusamente giustificato.

C’è una spaventosa differenza coltivata nei secoli tra il bianco medico inglese e qualsiasi personaggio musulmano del romanzo, a partire dal padre dignitoso e disperato dell’ucciso. Come c’era tra un ragazzo che sbarca da clandestino in Spagna e i due vecchi hippies che quasi lo adottano e lo prendono a lavorare per loro, non avvertendo il pericolo. È la lampante questione dei soldi – e quindi la mera sopravvivenza – che rende acerrimi nemici oppure tutto data a un periodo lunare e incredibile in cui il deserto era un mare di cui sono rimasti oggi solo i fossili, gli orrendi e demoniaci trilobiti da vendere ai turisti?

Osborne non spiega, scrive; non fa antropologia né tanto meno poesia, scrive (magari in regime di understatement: non che c’entri, ma a pag. 259, per esempio, scovo una citazione dal Prufrock di T. S. Eliot); scrive, e a suo modo e col suo stile – anche quando è troppo concentrato per essere ironico – si dimostra un narratore irresistibile.

IL LIBRO Lawrence Osborne, Nella polvere, traduzione di Mariagrazia Gini (Adelphi)

Credit: Lawrence Osborne author photo

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