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Allonsanfàn
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Julio Cortázar superstar

I racconti di Tanto amore per Glenda sono stati ripubblicati da Guanda (traduzione Cesare Greppi)


Julio Cortázar per me è prima di tutto la copertina di Ottaedro
, Einaudi, prima edizione italiana 1979: un Hockney quasi funereo che ritrae una giovane e attonita coppia borghese – si avverte una minaccia: in uno dei racconti più belli della raccolta, Estate, incantevole e spaventoso, un bianco cavallo appare vicino a una casa di vacanza e forse ci entra dentro. Poche pagine, personaggi in bilico sul limitare delle stagioni, una coppia forse all’addio e una bambina forse innocente che dorme con una rivista sotto il cuscino, metafore che non si possono sciogliere in tranquillità consultando un bigino di psicoanalisi.

Mi ero già trovato a un cupo crocevia di topoi cortázariani in Casa occupata (1945, da noi in Bestiario, Einaudi 1965), capostipite di tanti luoghi chiusi che si rivelano inospitali: nella cacciata dei due eccentrici ed edipici fratelli, il piano dello spazio si mescola o si confonde in modo soffocante e sorprendente con quello del tempo, l’interno con l’esterno… A pensarci ora, mi viene l’idea malsana che l’antica Casa occupata sia sopravvissuta così bene – come un tale di Poe, pluritradotto peraltro da Cortázar, come una dimora degli Usher – che oggi si potrebbe pure ordirle attorno un progettino, magari un graphic novel, o di più, con i produttori esecutivi sorridenti mentre organizzano il remake, un serial nero da buttare nella spazzatura dei nuovi successi con davanti il prefisso di qualche parolina che fa appeal di massa: horror, gothic, dark, ghost, vintage, fetish. Mi assolvo dalla futile idea quando scopro, googlando, che il film Magnifica presenza (2012) di Ferzan Özpetek ha subìto l’influenza di questo superbo e archetipico racconto.

Scrivendo Rayuela

L’amore per il giocatore Cortázar

Comunque. Fu subito amore nei Settanta per lo scrittore argentino e ci sono tante ragioni per spiegare perché. Restando al Cortázar di misura corta, senza dubbio la più congeniale, poiché era scrittore di racconti: le ilari Storie di cronopios e di famas (1962, Einaudi 1971) parevano giunte a svelare i meccanismi di un mondo più leggero, seguendo forse preistorie dell’anima; una famosa nota di Italo Calvino provò a spiegarne il gioco di prestigio. Oppure, spaziando sulla misura lunga, e ponendo chissà dove gli eccentrici assoli dei libri-magazzino: l’antiromanzo Rayuela – Il gioco del mondo (1963, Einaudi 1969) rivoluzionava la nostra passività di consumatori di carta. Chiedeva di essere affrontato letteralmente a piacere: i capitoli potevano essere letti in ordine diverso, e segnavano la fine (ma non davvero, anzi) dell’autore padrone del testo.

Certo, suggeriva Cortazár, la letteratura non è altro che questo: un gioco (“serissimo, nel quale si può mettere in ballo la propria vita. Si può fare tutto per quel gioco”, diceva all’amico Omar Prego) da rendere al popolo dei lettori, e la musica migliore a sposare le parole – lo amavo anche per questo – era il jazz più libero.

I periodi di un testo di Cortázar sono come il jazz rischioso e in presa diretta di un take via l’altro: è lecito spiegare con questa similitudine musicale il linguaggio parlato – ovvero lo “stile” che finge l’“oralità” (Vargas Llosa) – sofisticato e sinuoso, lo stream fluido o strappato, improvvisato come fosse costruito spontanemente grazie all’orecchio di un prodigioso interprete, che rende vivide e soprattutto possibili le pagine dell’argentino? Ripeschiamo da un’intervista: “Non so mai prima che cosa scriverò. Chiedereste a un musicista jazz che cosa sta per suonarti?”.

Jazz free più che milonga triste

Riascolto il free jazz in Cortázar e nel caso il sax tenore di Archie Shepp, cui si ruba un insistito fraseggio, in Luogo chiamato Kindberg (da Ottaedro), quasi che le ripetizioni e le reinvenzioni continue di un tema, siano levatrici di una delle tante percezioni dell’altro o alienazioni nell’altro dei personaggi o dell’io dello scrittore – qui non c’è una percezione fantastica, ma un semplice raffronto di vite e di età diverse della vita, eppure egualmente si ravvisa il “camaleontismo del poeta”, rivendicato in un testo dedicato a Keats ne Il giro del giorno in ottanta mondi, 1967, ristampato da Sur nel 2017. Per il prediletto campo fantastico, penso invece immediatamente a Lontana-Il diario di Alina Reyes (1950, da noi in Bestiario): qui l’altro è – secondo un’ossessione ammessa da Cortázar – un doppio alla Stevenson o alla Poe, come accadrà anche nel tempo stregato de La notte supina e nelle biografie fantasma de I passi nelle orme, racconti cui accenno dopo.

Comunque. Nella densissima prefazione di Ernesto Franco all’edizione de I racconti (Biblioteca de La Pléiade Gallimard-Einaudi, 1994), il jazz viene giustapposto al tango, scartato non tanto per esiguità di temi, prevalentemente amorosi, quanto per la sua partitura fissa, che non consente il “movimento” necessario a Cortázar. È un discorso interessante, questo, da ricostruire partendo dal fuoco delle milonghe e magari dal Carriego di Jorge Luis Borges – più vecchio di circa 15 anni i quali in una sala da ballo si sentono tutti – e spesso chiuso con una frase pluricitata e tombale (ma sviante) di Cortázar “il fragore del bombo disturba l’ascolto dei quartetti di Bartók” (vedi Jean Fajean, A Evaristo Carriego, 2007). Se ne riparlerà. Chi volesse intanto entrare con Cortázar in una milonga – il posto si chiama come la danza – ha a disposizione il quasi autobiografico Le porte del cielo (Bestiario).

Cortázar e padre Carlos Mugica

La realtà e la politica del fantastico

Poi, fuori ma non troppo dalle pagine: amavo la sua condanna dell’Argentina dei generali, l’impegno da periodista a Parigi, il più ampio sogno rivoluzionario, coltivato a Cuba (anche scazzando con Fidel Castro) o in Nicaragua. Mica stava a inventarsi, Cortazár, biblioteche in fiamme e pessimismi così cosmici che permettevano d’infischiarsene dei ragazzi buttati vivi in mare dagli aerei e dello schifo del mondo.

Cortázar riconosceva tutto il genio di Borges, sia chiaro: maestro di economia nella parola, fu per lui l’uomo che liberò il campo di un continente intero dalla “retorica decadente spagnola”. Questo in un’intervista a Rosalba Campra e Alberto Panelo nel 1976. Ma in quei vecchi tempi molto “di sinistra”, su quelle lodi di Cortázar, chi dispregiava politicamente e quindi in toto il cieco Omero dell’Aleph, magari reduce da un banchetto con il generale Videla, faceva orecchie da mercante.

Notavo invece che rendeva ancor più alta la sfida di Cortázar non seppellire mai nel suo approccio fantastico il reale, fare anzi del fantastico un tentativo di presa definitiva e totale della realtà. Si veda per esempio un racconto in cui una convocazione kafkiana e la noia della burocrazia congiurano nell’orrore di una sparizione in Seconda volta (Uno che passa di qui, Guanda, 1977).

Camaleontico e orfico, poeta e mago debole al tramonto dello sciamanesimo, invaso e posseduto dall’“idiozia sublime del vivere”, amante appunto del fantastico, ma senza lacrime di nostalgia e clangor di catene, non proprio seguace del già abusato “realismo magico” ovvero barocco, in movimento perpetuo. E ancora, per proseguire il ricordo con un ritratto fatto da lui medesimo: “…serio, esigente, inconsapevole (i temi mi arrivano da regioni non controllate dalla mia mente, che è modesta), paradossale (per lottare contro i monoliti ideologici e culturali)… perduto in una vigile astrazione da inguaribile cronopio” (intervista del 1971 ad Alfredo Barneche, Peregrinos de la lengua, Alfaguara, 1998).

Ecco Julio Cortázar: 1914-1984, figlio di diplomatico, nato per caso in Belgio, infanzia a Banfield, porteño, e in seguito, poiché antiperonista, dal 1951 via da Buenos Aires e di stanza in Francia e poi lì esiliato dai militari, traduttore e insegnante avanti che scrittore a Parigi, la quale ha accolto le sue spoglie a Montparnasse, non prima che gli fosse concesso da vivo, vivissimo, un ritorno trionfale in patria. Leggo da qualche parte di un Cortázar a Buenos Aires che autografa anche libri altrui, perché di suoi non se ne trovano più in giro, stretto dall’entusiasmo di studenti in manifestazione che lo incrociano per caso fuori da un cinema dove proiettano un film tratto da Osvaldo Soriano. Spero che sia vero.

Per una definizione di cronopio, di cui sopra: si sappia che essi “sono coloro che, se si lavano i denti alla finestra spremono tutto il tubetto per vedere volare al vento festoni di dentifricio rosa, se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità”.

Con la gatta Flanelle. In alto, è con Adorno

Le ultime interviste e le troppe coincidenze

Non trovo nella mia incasinata libreria il volumetto Entretiens avec Omar Prego (Folio), che contiene colloqui datati 1982-1984 – la voce di Cortázar arriva anche dall’ospedale dov’è ricoverato per una leucemia. La stessa malattia che ha ucciso la moglie americana, Carole Dunlop, con cui l’argentino ha “giocato” per l’ultima volta alla letteratura in un romanzo ad handicap serissimo e dagli esiti spiazzanti, Gli autonauti della cosmostrada ovvero Un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia (Einaudi, 2012). Il ricavato finisce in gloria al movimento sandinista. Ritrovo però sul web e lo ricordo bene che nel librino di Omar Prego lo scrittore parlava, secondo la definizione di Hector Bianciotti, “des coïncidences, ces jeux du destin que l’on attribue à l’indulgent hasard”.

Quando acquistai Les Entretiens capii meglio perché Cortàzar piacesse ad Alberto Ongaro, scrittore di strategie del caso e di coincidenze che aprono ferite nelle maglie del reale. Ongaro mi disse che era di Cortàzar uno dei suoi tre racconti preferiti di sempre, La noche boca arriba (La notte supina), da Fine del gioco, raccolto in Italia in Bestiario (Einaudi).

È da quel doppio sogno o doppia realtà che unisce e confonde senza un soggetto sicuro la sorte di un motociclista il quale ha avuto ora un incidente e quella di un giovane azteco “sacrificato” tanti secoli prima, che riprendo in mano i racconti ne La Pléiade, rispolvero le preziose e già citate pagine in cui Franco insegue la poetica di Cortázar (citando Poe, Verne, Keats, Rimbaud e Jarry…), e intanto impilo tra i libri sul comodino un’edizione Einaudi di Rayuela (l’ultima è del 2015).

Non mi stupisce di trovare una forte consonanza tra Cortázar e un altro tra i racconti prediletti di Ongaro – il terzo appartiene alla “miniera di diamanti di Nabokov”, come mi disse lo scrittore veneziano. È The Beast in the Jungle di Henry James: vista la letterarietà e la cultura pressoché sterminata di Cortázar forse sarebbe stato più difficile non trovare un aggancio. Ma mi capita adesso sott’occhio il terzo testo di Ottaedro, con l’orecchia all’angolo della pagina dove l’avevo fatta quarant’anni fa, ed è un calco jamesiano ammesso con tanto di distico – Cortázar si proclama un James fornito di mate in un patio degli anni Venti: ed infatti I passi nelle orme è la storia di uno scrittore preso alla gola all’improvviso, dopo tanto vagare in indeterminatezze, peccati e omissioni, da una catastrofica evidenza di verità, la quale era così in vista da esser stata trascurata.

I LIBRI Julio Cortázar, Bestiario (Einaudi), Storie di cronopios e di famas (Einaudi), Rayuela – Il gioco del mondo (Einaudi), Gli autonauti della cosmostrada ovvero Un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia (Einaudi), I racconti (Biblioteca de La Pléiade Gallimard-Einaudi), Il giro del giorno in ottanta mondi (Sur), Uno che passa di qui (Guanda)

 

Credit“Julio Cortázar y su gato Adorno” by Antonio Marín Segovia is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 “Julio Cortazar y su gata Flanelle” by Antonio Marín Segovia is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 “Julio Cortázar escribiendo Rayuela” by Antonio Marín Segovia is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 “Julio Cortázar y el padre Carlos Mugica” by Antonio Marín Segovia is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

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