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Allonsanfàn
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Gold Digger. Julia Ormond e un incasinato amore tardivo

Se bisogna gestire la stagione di una miniserie di 6 puntate da più di 50 minuti l’una, sorge una necessità – a meno di non essere un cineasta avantgarde dei tempi d’oro, tipo Andy Warhol, e risolvere tutto con micidiali quadri fissi dove non accade quasi nulla. La necessità di confrontarsi con un tempo lungo, molto lungo.

Esempio. Dovendo girare una commedia o un dramma – o darsi al dramedy come si dice ora – che ha per centro una agiata sessantenne la quale si innamora di un ambiguo trentenne, sarebbe agevole buttar lì un film di un’ora e tre quarti, tutto psicologia, abbracci e scazzi. Ma se il minutaggio della serie è di 330 minuti, bene, si deve riempirli e, per di più, tener vivo l’interesse per almeno cinque dei sei segmenti, mediante colpi di scena che scrollino lo spettatore al termine di ogni puntata – lo spettatore deve infatti ricordarsi di guardare la prossima, alla sesta chissenfrega.

Tutto ciò ci è venuto in mente seguendo la molto britannica e a suo modo composta e raffinata miniserie Gold Digger, da BBC One a Sky, la cosa più straordinaria della quale è a dire il vero la metamorfosi di Julia Ormond (classe 1965), da farlocca Audrey-Sabrina del ciccatissimo remake di un quarto di secolo fa, a una donna dal viso fiero di rughe, bello e severo, e dagli abiti da compassata signora inglese (no tubini anymore): più che suo, il merito del cambiamento appartiene al lavorio degli anni, ma l’ultimo decennio di Ormond è stato ben speso. Mai era stata così popolare grazie a teatro e serial, girati in patria ma non solo, da Casa Howard a The Walking Dead, passando per l’Emmy (da non protagonista) vinto per Temple Grandin.

Comunque, forte della sua maturità, e divorziata di fresco da un marito fedifrago, nella fiction Ormond viene presa in contropiede – proprio mentre sta per murarsi viva in una tradizionale e debitamente triste magione di campagna – da un nuovo imprevedibile amore sotto forma di trentenne copywriter, molto emotivo e spiantato, ma colto e romantico senza dire che è appiccicoso come una sanguisuga (un ingenuo/ambiguo Ben Barnes).

Segue svolgimento del balletto a due, con Ormond renitente, ma non soltanto lei. Dicono la loro anche i tre figli grandi i cui amori (uno Lgtb) fanno da spinoff interno alla serie, e poi ci si mettono pure l’ex marito stronzo e la sua donna, che era tra l’altro l’ex migliore amica della protagonista.

Gold Digger è una miniserie britannica creata da Marnie Dickens con Julia Ormond e Ben Barnes. Ha debuttato il 12 novembre 2019 su BBC One. In Italia è andata in onda su Sky Serie dall’8 al 22 settembre 2021

Ora il meccanismo di Gold Digger, inseriti questi elementi, fila abbastanza bene per tre o quattro puntate sul registro contrastata love story, eppure non può che cedere alla distanza – per bisogno pratico di riempire le ultime due – alla tentazione del thriller.

Il thriller, ossia il racconto a suspense meglio se con cadavere, è da sempre il miglior alleato degli showrunner dei serial contemporanei. Permette di procedere praticamente all’infinito, anche perché da tempo non c’è più l’abitudine, all’ultima puntata, di una soluzione sensata, la quale tarperebbe le ali a una possibile seconda stagione, e poi alla terza, alla quarta, ecc. ecc.

In Gold Digger c’è stato però il buon gusto di scegliere una strada intonata al resto del racconto – volutamente vintage, persino un po’ vecchiotto – e cioè una sorta di “dilemma da bianca scogliera a picco sul mare”, un po’ alla Daphne Du Maurier. Sia onore perciò alla piuttosto sofisticata creatrice e realizzatrice Marnie Dickens (nomen omen, da scrittrice e da personaggio alla Hitchcock), nel cui cv c’è il buon Thirteen. Adesso però guardate voi e diteci se ci si poteva mettere una pezza migliore.

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