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Allonsanfàn
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Paolo Cognetti. La felicità tra il cane e il lupo

Quando vivere coincide con il desiderio/bisogno di raccontare una storia, la migliore storia potrebbe essere quella di una vita scelta e non inconsapevolmente subìta. Potrebbe, questa storia, non richiedere gesta eroiche e accontentarsi di un onesto e umile protagonista, ma forse, in questi anni Venti del Duemila, per viverla e scriverla bisogna in qualche modo scappare, nel tempo – tornare indietro, ma come? – e nello spazio – andare lontano, ma dove?

Parcheggiarsi fuori dal tecnologico carcere metropolitano è l’impresa narrata nel romanzo La felicità del lupo di Paolo Cognetti (Einaudi 2021), dove capita che il quarantenne Fausto vada into the wild con pazienza e animo gentile, e the wild si trova ad appena due ore e mezzo di auto da Milano, è la montagna, l’altro spazio e l’altro tempo di Fontana Fredda sotto il massiccio del Rosa.

In the wilderness lo scrittore – questo ha scritto Fausto sulla carta d’identità e anche se è in sonno creativo cita volentieri Hemingway e Chatwin – scopre il ritmo di un’altra esistenza, concreta e misteriosa, dove basta il calare della luce per trovarsi secondo il detto francese nell’ora entre chien et loup, tra il cane e il lupo (e qui il lupo c’è davvero, è tornato, non è solo una metafora).

Per vivere, Fausto si improvvisa cuoco ai bordi di una pista di sci, va a letto con la ventenne cameriera Silvia, familiarizza con i gattisti dei gatti delle nevi come Santorso, liquida la sua vita precedente dicendo addio alla città, si trova a partecipare sempre come cuoco a un taglio del bosco etc. etc.

Non anticipo di più per non rovinare i piccoli grandi passi che il lettore farà con Fausto e con Silvia, pronta ad accettare la sfida di lavorare in un rifugio, al Quintino Sella, lettore che vede costruire, o provare a costruire, una trama solida, trovandosi di fronte a una domanda ineludibile: la montagna ha significato o siamo noi che glielo diamo? Risposta: la montagna non ha significato di per sé e noi dobbiamo capirlo, togliendogli l’effimera aura di libertà che le abbiamo sovrapposto. La montagna in fondo si fa i fatti suoi – che sia una specie di dio che tace? – noi dobbiamo farci i nostri.

Sembra possibile, dicevamo prima, tornare a vivere in un mondo hemingwaiano in cui ritrovare senso e peso delle nostre azioni. E viene alla memoria quando la letteratura si divideva nei quattro comparti funzionali del romanzo tardo novecentesco, secondo la lezione di Vittorio Spinazzola: letteratura Sperimentale, Istituzionale, d’Intrattenimeno, Marginale. Dove per Istituzionale si intendono “opere di prestigio… e di leggibilità seducente collegate con le stagioni precedenti” (Bruno Pischedda, Tirature ’17). Dopo la metà degli Ottanta, il primo comparto salta, i due intermedi si fondono. Cognetti resiste quasi anacronistico per il suo amore del passato nel comparto Istituzionale.

La felicità del lupo, lungi dall’acquattarsi tra gialli, noir, serie e memoir di santi e centravanti, tenta di trovare un suo posto tra un invernale Cassola – cui rimanda “il taglio del bosco” – e un umanissimo Rigoni Stern – il cuoco Fausto cucina le “patate alla Mario” in onore dello scrittore di Asiago. Paolo Cognetti prova cioè, e decidete voi che leggete se ce la fa, con simpatia e coraggio, arrivato dalla città, a parcheggiare sotto il Rosa, lì in mezzo a scrittori così.

IL LIBRO Paolo Cognetti, La felicità del lupo (Einaudi). Di Paolo Cognetti abbiamo già parlato qui

Nella foto, Paolo Cognetti e il suo cane Lucky (credit Whyilovethisbook)

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