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Cabinet of Curiosities. L’horror secondo Guillermo del Toro

Cabinet of Curiosities, o meglio Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, è una serie tv antologica statunitense del 2022 creata da Guillermo del Toro (prodotta ma non diretta da lui). È un’impegnativa e ambiziosa opera – molti dollari spesi più un concept forte – che mira a nobilitare l’horror rendendo omaggio alla sua storia e ai suoi cliché.

Sono otto episodi di circa un’ora, ognuno in sé concluso, dove le zone buie dell’animo umano e le beffe del destino, i timori atavici che spesso diventano reali, tangibili, più veri del vero, rubano la scena allo spavento passeggero – questa, di non far saltare sulla sedia, è una critica gratuita mossa a del Toro essendo il cineasta messicano un produttore consapevole non di terrore spicciolo ma assai più di incanti, a volte terribilmente malinconici, e semmai agghiaccianti o perturbanti come la creatura acquatica di The Shape of Water – perturbante che ha per sinonimi, lasciando per certa e a parte la lectio freudiana: disturbante, sovversivo, e persino rivoluzionario – e infatti del Toro è pure un cultore dell’eccezione e del bizzarro e come qui dichiarato un collezionista di feticci da Wunderkammer.

Comunque. Cabinet of Curiosities presenta telefilm – sono telefilm! non roba da binge watching! – in cui io ritrovo l’atmosfera e il tono delle antiche letture della mia infanzia: i nobili racconti di Edgar Allan Poe – La morte rossa, Ligeia, La botte di Amontillado… – e i meno nobili Oscar che raccoglievano le storie a fumetti, alcune riarrangiate proprio da Poe, narrate dal lugubre Zio Tibia (in originale Uncle Creepy).

Nei due primi episodi di Cabinet of Curiosities, non per caso, ci sono un sepolto vivo, dei ratti incredibilmente voraci, e una buia cantina maledetta da cui non si può fuggire. Se poi si ambienta il tutto nella cupa Salem di due secoli fa, cittadina per sempre segnata dai roghi di streghe e dalle lettere scarlatte… Ma allora non può mancare l’ombra (solo l’ombra, purtroppo) di H. P. Lovecraft, ripreso in due racconti, nel primo dei quali, Pickman’s Model (1927), il protagonista ha un’ava proprio di Salem che occhieggia da un quadro maledetto. Del secondo racconto, The Dreams in the Witch-House (1933), c’è solo il titolo, ma è nota la refrattarietà dell’opera visionaria di Lovecraft a essere riprodotta in rigidi schemi – è molto difficile infatti, per citare un personaggio dell’episodio, “spiegare l’aldilà alle masse”. Tutto ciò è detto per dare le coordinate dell’operazione Cabinet dove avvengono pure scambi di corpo tra umani e alieni e dove le casalinghe con l’hobby della tassidermia (passatempo tipico da Wunderkammer!) danno di matto nell’aria claustrofobica e tra i colori vintage di villette da suburbio anni Sessanta. Appunto.

Il fatto che il regista messicano faccia da voce narrante e in pratica da garante all’operazione – ci mette la faccia e il suo fisico rotondo da gentiluomo d’altri tempi -, riporta formalmente ogni storia nera al ricordo dei celebri telefilm presentati dal molto pingue Alfred Hitchcock – Alfred Hitchcock Presents (1955-1962) – e a ogni sorta di programma ai confini della realtà o ai bordi della paura apparso dagli anni Cinquanta/Sessanta in poi, servito con prosopopea quasi scientifica nel monoscopio statunitense, e pronto a segnare la vita di ragazzetti che rispondevano ai cognomi di Landis e Dante, Spielberg e Lucas, e tra gli scrittori, di King e Lansdale ecc. ecc.

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