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Allonsanfàn
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Latronico. La chiave di Berlino nelle memorie di un expat

Il vuoto inquietante ma attrattivo, e comunque misteriosamente incolmabile, dell’aeroporto storico di Tempelhof, poco più in là rispetto ad Alexanderplatz: dal 2008, si spalanca al bordo di una Berlino che, caduto il famigerato muro, sembra (sembrò) essa stessa un grande, enorme vuoto da riempire.

Gli interminabili anni Venti, non questi, ma quelli del secolo scorso, che sono durati fino all’altro ieri (o quasi): in su e in giù, eppure stando fermi, si viaggia tra le cronache di Christopher Isherwood, dandy omosessuale, e quelle di Franz Hessel in Spazieren in Berlin (1929), libro di flânerie definito da Walter Benjamin “un manuale per scrivere lettere d’addio”; Berlino sembra essere molto adatta a spedirne.

Il sesso senza identità di genere, le strisce e le pillole di un’estetica del ballo e dello sballo (scusate il termine volgare e inadeguato), la creatività e l’improvvisazione che corre nelle iniziative estemporanee di giornate in sé sospese e “senza sfondo” – neanche Isherwood si era accorto dello sfondo, dove marciavano i nazisti – strappate al calendario borghese da un popolo di individualisti (ossimoro), quello degli expat, iper turisti degli anni duemila, forse imprigionati in un Erasmus a vita.

La ricerca di un modo di neutralizzare il tempo – almeno, il tempo costruttivo delle società disciplinate – e le regole del “sistema” (ma si dice ancora così?) nella caccia alla “meraviglia”, spesso approdante al terminal di una clinica psichiatrica, grazie a leggendari club o ai rave al di là di ogni legge.

E poi. I poveri e forse truffaldini oggetti dell’arte contemporanea, punte di un iceberg venduto a milioni al cubetto, che permette a molti expat del duemila di sbarcare il lunario in case enormi e in quartieri modaioli, in settimane che durano max quattro giorni – dal venerdì alla domenica c’è il tic tac dell’orologio ingoiato e sputato dal rave.

La gentrificazione, infine, che cade come una scure sui flâneur anche a Berlino, alza i prezzi e riduce i metri quadrati di supposta libertà, e richiede altre virtù di programmazione dell’esistenza e persino della carriera agli affittuari, oltre alla qualità basica, di essere semplicemente vivi. Finché “…passeggiando lungo il Landwehrkanal non si trova nulla di sostanzialmente diverso da ciò che offre l’Isola a Milano, Williamsburg a Brooklyn, Grünerløka a Oslo”.

Ecco. Stiamo leggendo La chiave di Berlino (Einaudi), memoir saggio di Vincenzo Latronico (Roma, 1984), expat improvvisato che sceglie di prender casa nella città del muro nel 2009 in un conradiano momento “di noia, di stanchezza, d’insoddisfazione”. Ma poi, per fortuna, si scrolla da ogni scontata tentazione di fatuo Bildungsroman e si mette a guardare molto sul serio se stesso e la nuova capitale della gioventù internazionale.

La chiave di Berlinosi scopre che cosa e quale è all’ultima paginacontiene una letterata, ponderata, nel senso di sociologica e filosofica, e a tratti persino un po’ pallosa, escursione in una città unica (ossimoro) e in una giovinezza berlinese, pronta ad ammettere privilegi di censo – non di classe, parola che non mi pare compaia nel testo – e non esente da una consapevole ma garbata auto-gentrificazione intellettuale walterbenjaminiana.

Sarebbe pressoché idiota cianciare, in questo contesto alto – anche per linguaggio e per sintassi, per tono e per ritmo – di boomers e millennials, ma giova sapere che i coetanei di Latronico scappano anche da un’esperienza politica divenuta impossibile, la quale, più volte ricordata, appare per lo scrittore sideralmente lontana da Berlino e legata a una realtà che batte ogni metafora: il centro sociale milanese, una volta frequentato, è stato sostituito da grattacieli alberati in verticale a firma di archistar. Detto di passaggio: Latronico è attento all’appeal narrativo di affari immobiliari e speculazioni finanziarie, visto che vi ha appoggiato, e proprio in zona Isola, alcune delle pagine più riuscite del suo secondo romanzo, La cospirazione delle colombe (Bompiani, 2010).

Comunque. In trasferta berlinese, Latronico si smarca dalla masnada del saggio fai-da-self, per cultura, sincerità e acutezza d’introspezione, capacità indubbia di driblare sempre il banale di una prima (e di una seconda, e di una terza…) lettura dei fatti suoi, di Germania e del mondo. Non si perde ma va e viene negli anni, e pianta bene i piedi proprio nel grande vuoto di Tempelhof (e di una generazione?), in quella che è un’anima di Berlino e, aggiungo io, in qualche modo, forse pure della letteratura.

Quando si infila nei mitici e oggi turistici club come il Berghain o sfiora l’estasi, in un tempo altro rispetto a quello produttivo, ci porge un riassunto decennale dell’essenza dei rave, ovunque ambientati, e di cui Berlino è capitale. Capitolo interessante per chi pensa che i rave siano sinonimo di degenerata caciara (cfr. il governo fascista di oggidì): sono molto peggio, e infatti il Latronico più giovane li benedice, con un piccolo involontario aiuto di Milan Kundera che nei Testamenti traditi (Adelphi) sancisce l’irresponsabilità impunibile della gente che danza; pur se lo scrittore ha un po’ la coda di paglia poiché giunto ai quarant’anni – Berlino è la città dei suoi vent’anni prolungati fino ai trenta – non è finito, per prudenza o privilegio, per saggezza o chissà che, insieme ai dispersi fuori di testa, ed è rimasto, invisibile e indistinguibile ma in piedi, tra chi fa la fila in banca e magari paga un mutuo. Va aggiunto: qualunque cosa ciò significhi, non si è arreso.

Latronico ha scritto anche un romanzo-romanzo su Berlino, Le perfezioni (Bompiani, 2022), ispirato da George Perec (“E poi c’erano le cose, dappertutto…”). La chiave di Berlino è una sorta di completamento saggistico, esplicitamente e generosamente vergato sulla propria pelle.

A margine. Ho letto per caso il memoir a Berlino (Est) a casa di un altro scrittore, un altro expat, il milanese Paolo Grugni, della cui Darkland (un raid e un noir storico tra vecchi e nuovi nazisti, edito da Laurana), ho parlato qui.

La cover del libro di Latronico riprende il lavoro di una vecchia conoscenza, Armin Linke

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