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Ritratto di universitario in nero. La ricreazione è finita di Dario Ferrari

La ricreazione è finita raccoglie e ordina una serie di temi in un disinvolto romanzo di formazione, che tra l’altro da un momento all’altro potrebbe volgersi al noir, e questa è una questione interessante (vedremo perché), non soltanto perché abbiamo tra le mani un libretto blu – inutile protestare, semplifico sull’onda di quel che Sellerio porta ora, sia virtù o sia vizio, nelle classifiche di vendita.

Comunque. Il trentenne protagonista di La ricreazione è finita, il viareggino Marcello Gori – è il ragazzo o ex ragazzo che dice io nel testo – punta i piedi per non crescere, tra spente baldorie con amici invecchiati e studi svogliati all’Università di Pisa dove ha conquistato quasi per caso un dottorato in italianistica comparata. Per studio – siamo nel 2017 – ripercorre le gesta di un antico Lucignolo (molto, molto più Lucignolo di lui), il terrorista/scrittore Tito Sella, atipico brigatista/intellettuale del tempo che fu, cioè degli anni di piombo in cui Marcello non era ancora nato mentre già furoreggiava il cattedratico che lo vessa, il professor Sacrosanti.

Comunque: ho pensato in automatico come una storia simile sarebbe stata affrontata nei Settanta, da gente forse simile nell’animo se non (per carità!) nelle gesta al leggendario e immaginario Tito Sella. Mi immagino, per rimanere nei patri confini, i fuochi d’artificio lessicali di Tondelli su una base di cut up da volantino di fabbrica alla Balestrini (cui qui si ruba però un bel dialogo de Gli invisibili!), e pregusto il fischio di scherno citazionista di un narratore/saggista come Arbasino pronto a beffarsi del serioso “romanzo dell’intellettuale” in stile tardo Moravia, primo Volponi, medio Parise, con coriandoli pop assortiti – chi si ricorda per esempio l’horror situazionista di Cromantica di Gianfranco Manfredi?

Invece, citazioni a parte, con intelligenza e scaltrezza di narratore, Dario Ferrari si mette di lato, parte cauto, e produce in uno due o tre romanzi differenti – verrebbe da specificare: romanzi di epoche differenti, che riunificherà (forse) con il gioco di prestigio della letteratura e un aiuto di René Girard. Tutto ciò che è del protagonista Marcello, e appartiene al trentenne d’oggidì, viene adagiato in una spigliata prosa giornalistica persino un po’ sciatta e burocratica – forma che si riflette a specchio anche sui contenuti che attengono al presente; dove invece appare Tito Sella si accende la luce di un altro testo, pregno di vita e di morte, di delitto e di castigo, potenzialmente e vertiginosamente aperto come un cantiere d’inferno nella normalità scazzata della narrazione di Marcello – un testo, i testi di Sella, sono dapprima citati e ricostruiti nel dettaglio, come accade alle Agiografie infami o al romanzo resistenziale Il sapore della neve, ma con accortezza quasi mai offerti tra pericolose virgolette a mo’ di pastiche. Almeno finché lo svogliato sempre meno svogliato Marcello viene convinto (dal prof. Sacrosanti e persino dall’eterna fidanzata Letizia) a lasciare Pisa per Parigi a caccia del manoscritto di Fantasima, l’autobiografia dannata e misteriosa, ma soprattutto introvabile, di Sella…

Il viaggio del biografo viareggino, nonostante si protegga con una coolness un po’ dumb da post-vitellone, diventerà una resa dei conti con il sulfureo autobiografato. Consisterà forse nel liberare sé stesso inchiodando Sella, debitore più che di Marx delle Sacre Scritture, al momento che riassume una vita, “il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è” (Borges).

In mezzo a queste sorgenti d’ispirazione, di oggi e di ieri, Ferrari si permette un sunto, abilmente mimetico, del linguaggio parlato e scritto nell’angusta cittadella universitaria, fornendo una divertente lectio magistralis sulle grettezze del pensiero e del potere accademico, cui mancano giusto, per completezza, le famigerate note a piè di pagina. Per esempio: le schiere degli italianisti comparatisti e dei filologi, invitati a congresso, si odiano apertamente, con terzi incomodi i linguisti, ma si celano dietro rigidi codici di comunicazione (attenti all’aggettivo usato!), mentre nell’overstatement di occulte carriere si incrociano esperti mondiali di Gesualdo Bufalino (ossimoro!) o disgraziate che non riescono a chiudere una tesi sull’analità in Michele Mari.

L’unica cosa che Ferrari non ha calcolato nel suo calibrato gioco è che, divorato in una notte il libro, invece di ricercare subito il suo romanzo d’esordio, La quarta versione di Giuda (Mondadori 2020), sono corso in libreria per vedere se per caso era disponibile un qualunque testo di Tito Sella… Ciò per dire: SPOILER. La ricreazione è finita è in effetti un noir seppure a scoppio ritardato – e non solo in quanto narrante “vicende buie e misteriose”, come da basico lemma del Dizionario Treccani -; lo è purtroppo, perché poteva restare un romanzo e basta. Invece nell’ultima parte Ferrari si ostina, con l’abilità artigianale del burattinaio, a rispondere, come spesso si fa nei testi di genere, a tutte le domande – anche a quelle che il lettore non si era posto – ; si dà a chiudere le piste, a infilare ogni pallina in buca, a unire i puntini, traendo e enunciando a chiare lettere (nemmeno a lettere sfumate) pure una sorta di morale. Peccato. Se fosse stato uno scrittore degli anni Settanta…

Sulla cover, un autoritratto di Jamie Coreth, 1989

 

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