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Allonsanfàn
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Ricordando le brave ragazze di Alice Munro

Da più di vent’anni, quando non so che cosa leggere durante un viaggio, pesco a caso una raccolta di racconti di Alice Munro – la grande scrittrice canadese che se ne è andata ieri, 13 maggio 2024 – e sfoglio qualche pagina fino a che trovo qualcosa che non ricordo di aver letto. Conto sulla mia smemoratezza, ormai dilagante, e sull’arte stupefacente con cui Munro cattura l’interesse….

Ho appena letto (oppure riletto?) un racconto, Giacarta, tratto da Il sogno di mia madre (Einaudi, 2000), come gli altri del volumetto apparso sul molto venerabile e cerebrale New Yorker. Non è tra i testi più belli di Munro, ma aiuta a ricostruire in che cosa va sempre a segno.

Dunque, ci sono due donne, due giovani mamme, che a fine Cinquanta o giù di lì vivono nei villini dalle parti di Marina Drive a Vancouver. Si vedono in spiaggia, diventano amiche nonostante le reciproche diffidenze e timidezze e si confidano qualcosa – non tutto, non si può, ma entrambe hanno il senso di essere estranee ai costumi delle famigliole tradizionali, alle mammine e alle ragazze in stile Debbie Reynolds che hanno intorno. Non è un caso che entrambe abbiano lavorato un po’ come bibliotecarie, si siano incontrate in biblioteca…

In spiaggia, capita loro di parlare di matrimonio o del valore dell’amore in un matrimonio riuscito. È accessorio e un po’ libresco (almeno riguardo le usanze di Munro) che nominino Katherine Mansfield e litighino su un racconto di D.H. Lawrence? No, abbiamo saputo che hanno dimestichezza con i libri, e il quesito che viene posto da D.H. Lawrence è fondamentale per la storia: sono o no, Sonje e Kath, due donne capaci di mettersi tra le mani di un uomo? Il titolo originale della raccolta è The Love of a Good Woman e presenta alle protagoniste dei racconti (tutte donne tra i venti e i trent’anni, meno un’adolescente) quesiti simili.

Le coppie di cui le ragazze fanno parte sono diverse: Sonje sta nell’orbita inquieta e anti borghese del compagno giornalista e attivista di sinistra Cottar, Kath è più indecisa, si guarda in giro dubbiosa, è una che fuma in gravidanza ma poi è volonterosa e cerca di campare giudiziosamente con il dottore in farmacia Kent, un ragazzo che ha un’idea tradizionale dei doveri di un uomo e va in cravatta alle feste – qui c’è una lunga festa che spiega molto e serve, come di solito le feste in letteratura, per una rivelazione di intimità, di sessualità quasi, in pubblico.

Dopo poche pagine, ecco un brusco stacco. Sono passati anni (decenni): il marito di una delle due ragazze, in viaggio dagli USA verso casa, fa uno stop in Oregon dove potrebbe vivere l’amica dell’ex moglie. La moglie è infatti diventata una ex moglie dopo un divorzio o forse è morta. Non importa saperlo subito. Ma subito capiamo che tutto è mutato. Ci mettiamo pagine di apprensione o di suspense per scoprire che cosa è successo e a chi, cioè che cosa ha fatto la vita (o Alice Munro stessa) ai nostri personaggi – siamo illuminati dalla diversa prospettiva del tempo passato e da occhi differenti che possono farci cambiare la prima impressione che abbiamo avuto delle due ragazze e delle due coppie.

In questo caso, il personaggio chiave, colui che sta tornando a casa, è il ragionevole Kent. Viene scelto da Munro forse perché è quello che può vedere meglio il romanzesco o l’eccezionalità nel comportamento degli altri: è un farmacista consapevole della realtà e immune ai grandi sogni palingenetici dei poveri mortali degli anni Sessanta – apprendiamo che è malato, ma si sta curando, probabilmente perché chi è malato può anche accettare di esserlo e di curarsi, di più: ha sposato una fisioterapista. Scegliendo il punto di vista del pratico Kent, si conferma in qualche modo che il romanzo (e Munro lo sa) è un prodotto della società borghese…

Nel salto di tempo, non si agitano solo le cose che sono accadute out of focus, c’è il testo che ci scriviamo in testa noi lettori con un pizzico di ansia per congiungere con un senso plausibile i paragrafi distanziati dagli anni. Insieme ci arriva la sgradita consapevolezza – non morale, non religiosa, ma forse solo animale – che la vita è un tiro di dadi, quello che accade mentre noi, appunto, ci facciamo il nodo della cravatta – o mentre per una volta, se siamo donne, amiamo truccarci in modo vistoso – per andare a un party.

Gli scarti di tempo tipici di Munro mostrano quasi con violenza l’illusorietà del nostro controllo di lettori sull’esistenza di personaggi cui ci stiamo affezionando. Tanto più la loro vita è descritta nei minimi e concreti particolari, quanto più allo stacco, al risveglio, siamo stupiti o delusi…

Il rapporto tra gli spazi concessi a un episodio in una pagina o in un capitoletto non è commisurato ai tempi della realtà – i tempi del racconto sono in genere compressi o dilatati – né tiene conto della presumibile importanza che avrebbero nella realtà: questo non perché Munro sia una fautrice dell’ellissi minimalista, ma semplicemente perché non ha mai un approccio giornalistico alla cronaca dell’esistenza.

Invece: Munro “è interessata sia al tessuto delle normalità sia al colpo di forbici che lo taglia di netto”, ha scritto Antonia Byatt: ma forse va detto più precisamente che il colpo di forbici, nella visione di Munro, è parte della normalità.

Il cambio di peso dei personaggi in questo racconto e il precisarsi dei loro singoli destini mostra anche – e questa è una civetteria – che pure la scrittrice canadese potrebbe non avere un vero controllo su quello che immagina succeda.

Ma non preoccupiamoci dei poteri di Munro. Torniamo sulla prosaica sponda di noi lettori, a ciò che ci infastidisce mentre cerchiamo di capire, mentre costruiamo e ricostruiamo i nostri pensieri attorno ai personaggi di Munro: abbiamo già detto che è l’avvertire che tutto questo disastro (la vita) può capitare anche a noi, capita davvero anche a noi… Nel finale Kent riassume l’inquietudine, avvertendo la sua riluttanza a rivedere l’ex moglie Kath, e infatti evita di cercarla: ciò che accade davvero è l’insopportabile eventualità di scoprirsi estranei e lontani alle persone che amavamo.

Nel gioco di prestigio delle prospettive di Munro siamo avvertiti anche di quello che forse sapevamo già e cioè che è Kath la vera protagonista del racconto (l’alias plausibile di Munro), pur se ne è finita ai margini, ed è a lei che dovremmo domandare se ha conosciuto e praticato l’amore come a good woman.

Giacarta è un bel titolo di un luogo solo nominato nel racconto, ma è vicino e insieme alieno a Vancouver, è una parola e un ago di bussola.

***

Kath e gli alias presumibili di Munro mi danno il desiderio di frugare tra le pagine cercandone altri, e ben più evidenti. Sono convinto dalla mia smemoriata memoria – ma dovrei aprire tutte le raccolte di racconti per sincerarmene – che per ogni stagione ed età della scrittrice esiste tra le righe una traccia di lei – non banalmente autobiografica, anzi sotterranea ed enigmatica.

Nei testi di Munro ricorrono donne insicure in apparenza, quasi opache, ma desiderose di definirsi in una maniera individuale che non sia quella del grande e stolido gregge che le ha precedute e le attornia. Possono essere giovani madri di famiglia che girano il mestolo nella padella con un infante al collo ma sanno che in ultima istanza sacrificheranno tutto (l’amore, l’idea di maternità, e in pratica scaricheranno il marito e i figli…) per dedicarsi ad altro, magari per diventare scrittrici – ma è un mezzo, questo, non un fine. Il perché non lo dicono, è evidente e nel contempo celato e difeso dall’opacità, è un non detto che però risulta chiarissimo.

Nel racconto Cortes Island, che segue Giacarta, trovo un’altra di queste donne, la “sposina” attonita e quasi infantilmente severa che non sa fare e non vuole imparare a fare niente né se ne preoccupa – è addirittura un personaggio alla Bartleby -, però scribacchia. Diventare adulta per lei non sarà imparare a gestire una casa o un matrimonio ma scoprire e liberare in sé un mondo di sensualità primitiva che le si svela in sogno – il racconto si apre, si fa capire, proprio all’ultima riga.

Alice Munro, 1931-2024

Pauline, protagonista di un altro testo, Le bambine restano, la quale non ha caso ha “occhi opachi”, si allontana dalla famiglia dopo essere stata coinvolta da un seduttivo regista in un dilettantesco adattamento teatrale della leggenda di Orfeo e Euridice. Il malessere che avverte come altre eroine – scrittrici e non di Munro – spinge Pauline a una diversa e più libera costruzione di sé, segnata da una fortissima cesura col passato. Nelle storie di Munro è spesso presente un “costi quel che costi”, che ha per prezzo la solitudine, dopo che le sue protagoniste hanno patito l’umanissima e straziante illusione dell’amore e del sesso. Anche qui, però, sono le ultime righe a sorprendere, fornendo come anti climax una significativa e quasi divertita smitizzazione di Mr. Orfeo. Ogni vita, del resto, finisce e si capisce solo all’ultimo minuto.

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