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Allonsanfàn
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Abdulrazak Gurnah e i rifugiati sulla riva del mare

Permessa. E se poi in fondo di questo divario Nord Sud del mondo proprio niente ce ne fregasse, anche se poi fingiamo, più o meno bene, una compunta attenzione, presi in mezzo ai trombonici proclami della Destra fascio-razzista e della Sinistra ragionevole-buonista? E se poi per esempio dell’Africa, immenso e ignoto continente nero, da cui si migra scappando a gambe levate, come e appena si può, fuggendo dall’incendio della violenza; se di quest’Africa appunto non ci importasse più di tanto, salvo l’aspetto esotico un po’ d’accatto – ossia una variante per la nostra noia estetica – il quale è tutto sommato consumabile nei romanzetti dei pronipoti viaggiatori di Zio Willy o di Graham Greene, e così, tra un Osborne marocchino e un remake di Heart of Darkness, con noi stessi ostentassimo persino di saperne qualcosa, anzi di più, di quest’Africa, come quando giuriamo di conoscere la vera Milano perché abbiamo letto i gialletti Sellerio dei vari Consonni e Monterossi? Eh be’, allora, su il bicchiere, facciamo il brindisi meno scontato possibile all’Accademico Dispettoso, quello che in Svezia smazza le carte dell’arte e scopre gli scrittori per noi poveri supponenti italiani, e ha premiato col Nobel 2021 Abdulrazak Gurnah (nato a Zanzibar, attuale Tanzania, nel 1948, africano anche se in Gran Bretagna da parecchio), di cui La Nave di Teseo pubblica il romanzo Sulla riva del mare (By The Sea) recuperandolo da Garzanti vent’anni dopo (traduzione di Alberto Cristofori), ma insomma è assai meglio che niente. Leggiamo dunque e chiediamo scusa per l’ipocrisia e la spocchia di cui sopra. Leggiamo bene e basta. Punto e a capo.

Da Zanzibar a Londra, citando Bartleby

Il commerciante di mobili Saleh Omar, ormai anziano, arriva da Zanzibar all’aeroporto londinese di Gatwick. Porta con sé, certo, il travaglio della sua gente, il dolore di una terra segnata da scoppi di violenza intollerabili e dalla subdola eredità del periodo coloniale. Ma insieme reca una serie di disastri personali. Di fronte a Saleh – che finge per una malintesa astuzia di non capire l’inglese – si para un funzionario del governo britannico, ovvero dell’ex United Kingdom, lui a sua volta con avi stranieri, pronto a negargli l’asilo politico e il susseguente percorso nel purgatorio dei campi profughi e dei servizi sociali.

Incomincia significativamente a una frontiera il libro di Gurnah, in cui senza retorica si evocano e agitano forze profonde. Saleh Omar, uomo che ha vissuto e visto tutto, del passato ha portato con sé solo una minuscola scatola: contiene un incenso prezioso, un simbolo pratico, a dirla per ossimoro, caso mai gli servisse un profumo a riavviare la memoria. Anche se… “è un posto triste, il paese della memoria, un deposito buio con pavimenti marci e scale arrugginite dove a volte si passa il tempo frugando fra cose abbandonate”.

Nel procedere della vicenda, Saleh confronta uno ieri con un oggi, incarnati in due terre e in due uomini: questi ultimi sono un vecchio nemico, Rajab Shaaban Mahmud, cui in patria avrebbe “rubato” la casa a seguito dei commerci del torbido mercante Hussein, e a sorpresa Latif Mahmud, il figlio di Rajab, poeta e professore residente da anni in Inghilterra; entrato in contatto quasi per caso con Saleh per aiutarlo con la lingua, diviene il deuteragonista del libro. 

Nella seconda parte del romanzo si replica lo schema della prima: apprendiamo la storia di Latif, che si sposta tra i continenti ma in un periodo storico precedente. Zanzibar è ormai indipendente quando cambia il vento politico. L’interventismo della Cia in Africa unito al razzismo interno degli Usa post kennediani spinge il paese nella sfera d’influenza comunista, e Latif Mahmud, che parte per l’Occidente anche per lasciare una famiglia economicamente e affettivamente allo sfascio, si trova quasi per inerzia a studiare da dentista nella DDR.

La terza parte del romanzo, intitolata Silenzi, la più bella e complessa, orchestrata abilmente per ricucire tutti i temi enunciati nella vicenda, ospita una sorta di resa dei conti tra Saleh e Latif faccia a faccia in una piccola città di mare inglese – un mare che è sempre discreta metafora – in cui l’uno troverà legata all’altro, finalmente, la definizione della propria identità.

A gettare un ponte tra i contendenti, già stanchi e scorati prima di incominciare a parlarsi, compaiono i jiin più efferati delle Mille e una Notte e, poiché si tratta molto di affari e rovine economiche, nascosti o evidenziati da amori e odi inscalfibili, da fughe e meschine vendette, viene buona a entrambi la conoscenza del più famoso contabile della letteratura occidentale, lo scrivano Bartleby, il cui “preferirei di no” attraversa, in maniera quasi commovente, il discorso dei due rifugiati. E il fatto che sia il personaggio più enigmatico, privo di un sicuro codice interpretativo, della letteratura occidentale ad avvicinare in un lampo i due uomini di Zanzibar, svela al contempo, quasi beffardamente, il barlume di fede che Abdulrazak Gurnah ripone nella scrittura.

Lo sguardo dello straniero

Dunque. Gurnah, inatteso premio Nobel 2021, non vanta la magniloquenza e crudeltà di sguardo di Sir Vidia Naipaul, la nevrotica stizza del primo Coetzee (quello di Youth), l’affabulatoria giocoleria di un Rushdie o la straziata pronuncia di Jamaica Kincaid – questo per nominare autori post coloniali che gli sono cari e a cui da docente ha dedicato attenzioni.

Ma allora: che cosa possiede di peculiare, qual è per esempio l’impronta che marca By The Sea? Quello di Abdulrazak Gurnah è il passo e l’occhio dello straniero, il tentativo sotteso alla sua opera è preservare l’individualità di umili uomini in esilio, travolti dall’infelicità oltre che dalla storia ufficiale. La concretezza e unicità di un’esperienza umana chiama la necessità della scrittura, che prende per tema un’affettività spesso impoverita, ma forse capace di “tenere” nonostante tutto. Sia che l’azione si svolga in un esilio simbolico, quello di gente spossessata di se stessa in patria, come nei romanzi di Gurnah ambientati in Africa, sia che l’esilio porti con sé altri connotati geografici come in By The Sea, lo scrittore rinnova la forza dei rapporti umani che legano i suoi personaggi.

Conclusione. Ora che l’argomento è più che attuale, poiché tocca il grande cammino dell’emigrazione verso l’Europa, Gurnah non si ferma alla fiction ma la affianca a interventi mirati come un articolo del (lontano?) 2001 che abbiamo spulciato su The Guardian e sembra scritto ieri: “The debate over asylum is twinned with a paranoid narrative of race, disguised and smuggled in as euphemisms about foreign lands and cultural integrity”. E infatti: scritto in un’inglese limpido, ricco di citazioni appena nascoste, e lontano da ogni vernacolo d’uso internettiano, By The Sea contribuisce, oltre che a una conoscenza più profonda del mondo, a fare da antidoto alla “narrazione paranoide” dei razzisti. Alla faccia di ogni nostra leziosa ipocrisia e posa da lettori colti e aggiornati (cui è concessa solo una lamentela, quella di avere googlato troppo, non avendo trovato a fine romanzo un glossarietto).

IL LIBRO Abdulrazak Gurnah, Sulla riva del mare (By The Sea), La Nave di Teseo.

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Credit: Abulrazak Gurnah on Hebron Panel by PalFest is licensed under CC0 1.0

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