È difficile per un intellettuale déraciné vagabondare per Roma, nella realtà e nella finzione, in quest’ultima poi è un lampo rovinare nei luoghi comuni di una lunga tradizione.
Colpa del cinema, certo, di quel modo svogliato e disperato che accomuna il prototipo Marcello Rubini de La Dolce Vita – il super cliché culturale romano dei Sessanta – e il suo recente parodista, il Jep Gambardella di La Grande Bellezza, struggente esempio di Kitsch andato in malora insieme agli splendidi vizi della Capitale.
In mezzo ai due, cioè in mezzo a una strada assai battuta, cammina anche il Leo Gazzarra di Gianfranco Calligarich, il quale trascorre un anno a Roma in un romanzo dal titolo vagamente minaccioso, L’ultima estate in città (Bompiani).
È un’opera che merita due volte simpatia. Quella da riservare agli esordi, di cui possiede la sincerità senza pudore: ecco qual è il miglior antidoto ai cliché di cui sopra in pagine che danno la garanzia di essere state scritte a macchina e non hanno subìto l’estenuante lifting livellante del computer (unire i puntini, annerire gli spazi…). Secondo motivo per essere ben disposti, il rispetto che si deve ai romanzi dal destino travagliato.
Uscito per la prima volta nel 1973 da Garzanti – con l’autore di quattro anni lontano dalla fatidica soglia dei trenta – L’ultima estate in città è oggi al terzo rilancio, dopo due sparizioni dal mercato, che l’avevano reso un titolo ricercato e prezioso.
Ripreso nel 2010 da Aragno, è solo nel 2016 che guadagna definitiva visibilità con Bompiani: si trova adesso anche nei tascabili della collana Le Finestre con una bella lettura di André Aciman e si prepara a una fortuna all’estero.
Quasi trentenne, disoccupato e flâneur, indolente per scelta e in cerca di vaccino contro la disumana ottusità del mondo, Gazzarra è il tipico eroe fuori sede ovunque si trovi ma nell’indifferente Roma ancora di più e deciso a vendere cara una pelle di cui poco gli importa.
Soffia tra le pagine, seppellendo a poco a poco ogni traccia di fellinismo, un’aria di Fiesta emingueiana e di Bildungsroman all’americana – meglio: di romanzo di distruzione alcolica all’americana – che hanno il sapore e il senso di un tempo storico preciso. Gazzarra (bel cognome da attore di Cassavetes) si muove troppo tardi per partecipare alla sorpresa euforizzante del boom e un po’ prima che il ’68 offra uno sbocco politico all’inquietudine della generazione cui appartiene.
Questo spiega come la sua disperazione, che solo per un attimo prendiamo per sussiego cool, sia in realtà un precipizio che lega il giovane e la città senza centro in cui si rispecchia, una città che sa, come la Piazza Navona di pag. 91, di essere tanto stupenda quanto inutilmente sopravvissuta.
Sarà l’amore a trarre Gazzarra d’impaccio da una situazione di lento abbandono a una deriva da ubriaco? Troppo facile. Anzi. La volubile e nevrotica Arianna, deuteragonista del romanzo, è certo una ragazza sans merci che giustifica notti bianche e lunghi tour nella Città Eterna. Ma di Gazzarra non sarà l’amante, quanto piuttosto l’anima gemella, nel senso che i due vivono la stessa solitudine e inettitudine, la nostalgia di un’altra era, persa per sempre e forse mai esistita – Aciman lo spiega molto meglio di me.
Non fanno comunque parte di una genia che china facilmente il capo. “Io non prego, al massimo chiedo per favore” dice nel finale Gazzarra (pag. 133), ed è solo l’ultima delle sue agudezas fermamente distanzianti, prima di una delle ricorrenti e sempre più decise “alzate di vele”.
Gianfranco Calligarich, nato all’Asmara, triestino di famiglia e cosmopolita d’animo, dopo l’Estate ha proseguito in modo eccentrico la sua carriera creativa.
Prima di affermarsi come scrittore, ha fatto il giornalista e sceneggiato cose belle per la Rai, tra cui ricordo un gioiello, Storia di Anna. Si è poi mosso facendo apprezzare – due titoli a caso – la brillantezza di trama nei racconti di Posta prioritaria o la complessa prospettiva storica de La malinconia dei Crusich, un romanzo che si connette alle dolorose ossessioni famigliari del giovane Gazzarra e ne amplia la visione.
Ho incontrato una sola volta Calligarich alla mostra del libro di Torino dove presentava Martini Eden (Nutrimenti), un libretto dedicato al cocktail, scritto in combutta con altri amici: a voler essere pignoli, si ritrova nel divertito bon vivant di quella piccola opera un eco del suo vecchio personaggio, quando Calligarich forse in onore della Roma dove ha trascorso la giovinezza consiglia una variante con vermouth rosso del Martini. La battezza – con più affetto, cinismo o ironia? – il Cardinale Pallido. Che Gazzarra si intenda di cocktail e dei loro nomi è del resto evidente a pag. 96.
IL LIBRO Gianfranco Calligarich, L’ultima estate in città con una nota di André Aciman (Le Finestre Bompiani)
Credit: un particolare della copertina da una foto di Paolo Carnassale