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Francesca Scotti. Intervista su Il tempo delle tartarughe e altri racconti

Ero fermo a Capacità vitale, il bel romanzo uscito nel 2019, che aveva imboccato la strada aperta da Ellissi (2017). E ricomincio molto volentieri a leggere Francesca Scotti oggi, ne Il tempo della tartarughe (Hacca edizioni), che segna un cambio di passo, la scelta della misura breve ma non fulminea del racconto.

Fulminee sono piuttosto le svolte delle storie, le frasi telegrafiche che sottolineano spesso una minaccia o l’apparire di un precipizio, servendo sempre un di più di comprensione; fulmineo è il brusco cambiamento atmosferico causato da un paio di parole, spesso ne basta una soltanto, che chiudono all’ultima riga un racconto svelandone il significato più profondo. Ci si trova per un secondo nella sorpresa, come accecati momentaneamente dal lampo, prima di vedere bene e capire dove la scrittrice milanese ci ha condotti.

Un gesto d’affetto potrebbe propiziare un addio nel racconto del titolo, un viaggio in treno porta una bambina giapponese in una dimensione ignota, il tempo si piega a un’eventualità imprevista in Festa a sorpresa che pure si apriva sull’acqua di un lago “così ferma e densa da replicare il cielo”… A volte, i protagonisti di Scotti possono godere della più preziosa delle ricompense (“Mi scesero due lacrime ma avevo una conchiglia stretta nella mano”, L’isola dei gusci).

In tutti i 15 racconti della raccolta, uniti da fili tematici e dai battiti cardiaci, senza confini netti tra l’Occidente e un Oriente molto concreto, succede qualcosa – giova specificarlo: questi non sono racconti squisitamente mentali, anche i fantasmi che vi appaiono sono tutt’altro che impalpabili, qui accadono “cose”. E la forma è sorvegliata dalla cura con cui Scotti accompagna i personaggi, vedendo più degli altri, vedendo “altro” ma senza farlo pesare né a loro né a noi. Così, anche la partitura più complicata – Scotti ha studiato musica e si sente – è eseguita nell’apparenza di una spietata semplicità. Queste le domande che abbiamo rivolto a Francesca.

Come mai questi racconti dopo i romanzi? Ti permettono qualcosa di differente, qualcosa in più?

“Il mio primo incontro con la scrittura è avvenuto grazie ai racconti. È una forma che amo molto anche come lettrice e tornarci oggi, dopo aver utilizzato una muscolatura in parte differente per lavorare ai romanzi, mi permette di ritrovare una dimensione che sento profondamente affine: uno sguardo rapido con il quale raccogliere e decodificare più dettagli possibile, una conoscenza scrupolosa di quello che accade – della vita dei personaggi, del contesto – destinata a restare in gran parte sommerso. Nel racconto per me è centrale l’essenza, l’ombra rapida, il cambio di luce capace di riferire una vita intera, una perdita, una nostalgia, una gioia, il passaggio importante di una relazione, una fantasticheria”.

Il titolo di solito è uno statement. Perché Il tempo delle tartarughe in un mondo che va velocissimo (magari alla catastrofe)?

“Sì, questo titolo è una dichiarazione di intenti e forse anche un’aspirazione. È una riflessione sul tempo, troppo veloce e non abbastanza. Un tempo che spesso non asseconda i desideri dei protagonisti dei racconti, che intralcia, pone questioni, costringe a cambi di rotta. Un tempo interiore che differisce da quello esteriore, un tempo stratificato. E poi c’è la tartaruga con la sua potente simbologia e il suo incedere prudente, lento e costante”.

Il Giappone: ce n’è tanto. Oltre al fatto che ci vivi per metà dell’anno, serve a vedere le cose da un punto di vista diverso e lontano?

“Il Giappone, con la sua barriera linguistica, inizialmente mi ha costretta a immaginare risposte, a intuire. È un paese culturalmente ricchissimo, sorprendente e più ci vivo meno sento di comprenderlo: non è un male perché l’esigenza di studiare e la creatività sono continuamente sollecitati. Il Giappone mi autorizza a immaginare soluzioni fantastiche, mi permette di sperimentare forme e luoghi inconsueti. È una risorsa continua perché anche la sua realtà talvolta è talmente ‘altra’ da farmi osservare le cose da un punto di vista totalmente nuovo e come dici tu, diverso e lontano – anche la distanza è qualcosa che la vita nell’arcipelago mi ha permesso di sperimentare”.

Credi nei fantasmi? Mi sembra che il tuo senso del surreale nei racconti sia molto reale. Penso al racconto di Sveva, Festa a sorpresa, alla balena di Fanoni

“Sì, credo nei fantasmi. Direi che in una forma più o meno esplicita sono presenti in ogni racconto, c’è la loro tensione, ma anche la loro sensibilità. Non è un libro infestato in senso spaventoso, quelli che si incontrano sono fantasmi premurosi, qualche volta un po’ indisponenti, ma non crudeli – è più spesso la realtà a esserlo”.

Li vedono i bambini.

“I bambini, giusto. Uno sguardo unico, l’età fragile e allo stesso tempo potente, il futuro che si forma, la scoperta costante. In più di una storia, per superare la difficoltà, hanno bisogno dell’amore di un fantasma”.

La letteratura abbatte i confini anche tra vita e morte? È l’unica magia – la letteratura – che ci è concessa, penso alla storia di Michiko ne La prossima fermata.

“Per me la letteratura può farlo e io la cerco anche per questo. È una magia, i confini si sciolgono, i mondi si ribaltano, si sperimentano scenari possibili. Libri come talismani, esorcismi, profezie ma anche come fortezze, abbracci, luoghi sicuri. Spero che la storia di Michiko sia una di queste”.

Il libro è abitato dagli animali: ti interessano perché sanno qualcosa che noi non sappiamo o non sappiamo più?

“Il segreto che custodiscono gli animali è qualcosa che mi affascina fin da quando sono bambina. Mi piaceva – e mi piace – osservarli, osservare l’universo e il tempo che rappresentano, le loro soluzioni, la loro intelligenza, la loro voce. Ci sono animali in ogni racconto e più o meno protagonisti: non riesco a immaginare una storia senza”.

Hai scritto di più, in questo libro, sulla libertà o sulla precarietà?

“Credo che la precarietà sia il punto di partenza, anche quando i personaggi credono il contrario. La libertà è l’aspirazione, l’orizzonte al quale qualcuno riesce ad avvicinarsi”.

Basta un istante a rovinare tutto o a portare alle stelle: è questo il problema?

“L’istante è uno dei protagonisti non dichiarati di questi racconti. Una frazione di tempo che cambia repentinamente il colore di una scena, il corso di una vita. Gli istanti mi impensieriscono, e forse è anche per questo che ho provato a raccontare qualcuna delle loro storie di infelicità e felicità”.

I tuoi tre racconti preferiti di tutti i tempi.

“Questa è la domanda più difficile perché sono tanti i racconti amatissimi. Questi tre sono i che tengo sempre vicini e sui quali torno di continuo: La casa della luce di Ogawa Yoko, La lotteria di Shirley Jackson, e Casa Occupata di Julio Cortázar”.

IL LIBRO Francesca Scotti, Il tempo delle tartarughe (Hacca edizioni). Per saperne di più su Francesca Scotti, qui

Credit: Michela Chimenti

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