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Paolo Nori: dopo 43 anni sanguino ancora per Dostoevskij

«C’è una mia amica che si chiama Elvira che sostiene che Dostoevskij sembra Jovanotti da vecchio. Di sé lo scrittore diceva “Sono un uomo felice che ha un’aria un po’ malcontenta”». La sala del Teatro Parenti a Milano (sold out, non c’è un solo posto libero) un po’ ride e un po’ si allarma alle parole di Paolo Nori che sul palco presenta il suo nuovo libro. C’è curiosità per Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostojevskij (Mondadori) che racconta uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Ma c’è tanta curiosità anche per il suo autore («sono laureato in russo, traduco romanzi dal russo, sono appassionato di letteratura russa» si presenta così) a cui un’Università milanese ha cancellato un corso su Dostoevskij a causa della guerra tra Russia e Ucraina, e che poi ha detto “no grazie” quando la stessa Università ha fatto marcia indietro e ha rimesso in calendario le sue lezioni. Sul fatto specifico Nori non dirà una parola. Racconterà di Fëdor Dostoevskij e lo farà con un leggero accento emiliano che sarà meno leggero nei passi che più di altri lo coinvolgeranno.

È una passione vera quella di Paolo Nori per Dostoevskij e per gli autori russi. «Tutto è cominciato poco più di 43 anni fa, nella casa di mio nonno a Basilicanova, in provincia di Parma» racconta. «È lì che ho letto il mio primo romanzo russo: Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. A un certo punto il protagonista Raskolnikov si chiede: io quanto valgo, sono come un insetto o come Napoleone? E io, allora 15enne, mi sono fermato e mi sono fatto la stessa domanda: quanto valgo? Come un insetto o come Napoleone? E ho avuto l’impressione che quel libro scritto 112 anni prima a 3 mila chilometri di distanza avesse aperto dentro di me una ferita che non avrebbe smesso di sanguinare. Il titolo del mio romanzo, Sanguina ancora, è la conferma di quell’impressione: sì, dopo 43 anni la ferita sanguina ancora».

Lo dice con un tale entusiasmo che verrebbe da chiedergli se sanguinare gli piace. E la risposta arriva: «Poco prima della pandemia, a Bologna con altri scrittori, stavamo lavorando al terzo numero di una rivista intitolata Qualcosa. Avrebbe dovuto avere come tema le storie sentimentali finite male. Dopo due ore passate a raccontarci le nostre sofferenze di ragazzi, che sono le più intense, a me è venuto da pensare “ma come stavo bene quando stavo male a quei tempi lì, ma che meraviglia era essere così vivi”. Ecco, leggere Dostoevskij a me fa quell’effetto, mi accorgo di essere vivo, di avere il sangue che scorre nelle vene. Per questo mi piace sanguinare».

Paolo Nori Sanguina ancora

Dostoevskij ha fatto sanguinare non solo Paolo Nori. L’esempio è John Fante che ne La confraternita del Chianti (poi ripubblicato con il titolo La confraternita dell’uva) scrive: “Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Ne sapeva più lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e così di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza. Dostoevskij mi cambiò. L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, Il giocatore. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere”.

In Memorie dal sottosuolo il protagonista, l’unico che non ha un nome nei romanzi di Dostoevskij, dice: “Io sono solo e loro sono tutti”. «Quando ho letto quella frase mi sono arrabbiato perché ho avuto l’impressione di essere stato plagiato: nel mio intimo ero io quello da solo mentre gli altri erano tutti. Poi a mia figlia, che all’epoca aveva 15 anni, ho chiesto: hai mai pensato che tu sei sola e gli altri sono tutti? Certo che ci ho pensato, mi ha risposto lei. E Alessandra, la redattrice del mio romanzo, ha chiesto lo stesso ai due figli adolescenti e ha avuto la stessa risposta. Dostoevskij, sì lo scrittore nato 200 anni prima a 3 mila chilometri di distanza, in modo molto semplice e senza alcuna retorica ha trasmesso un sentimento che anche tre ragazzi italiani che non lo hanno mai letto capiscono perfettamente».

Dostoevskij che assomiglia a Jovanotti, Dostoevskij «anche un po’ gobbo», nato a Mosca nel 1821 e trasferito a 15 anni a San Pietroburgo per studiare ingegneria navale. Una vita tra alti e bassi, gli inizi complicati, la decisione di diventare, con il fratello Mikhail, editore, e la prima traduzione de La dernière Aldini di George Sand, che però era già stato tradotto («Anche scoprire le sciocchezze che fa me lo avvicina»). E il primo articolo che pubblica in una rivista che dimentica di indicare il suo nome. E la celebrità con Povera gente, poi di nuovo in difficoltà con romanzi che successo non hanno, da Il sosia («non piace neppure a me» dice Nori) a La padrona («Introvabile e illeggibile»). Poi la condanna a morte per aver letto in pubblico, al Circolo “rivoluzionario” di Petrasevskij, una lettera proibita, l’esecuzione evitata all’ultimo, dieci anni in Siberia, il ritorno a San Pietroburgo, Delitto e castigo, Il giocatore, il secondo matrimonio con Anna Grigor’evna Snitkina Dostoevskaja «a cui ne farà passare di ogni ma che amerà per sempre», il successo, fino all’ultimo I fratelli Karamazov.

C’è tutto questo (e molto di più) in Sanguina ancora che della vita di Dostoevskij fa un racconto emozionante e in qualche modo “vicino” a tutti noi. «Penso davvero che la vita di Dostoevskij sia un romanzo. Una vita così stupefacente che vale la pena raccontare indipendentemente dal fatto che lui sia uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Però il romanzo della vita di Dostoevskij non è un romanzo russo, perché finisce bene. I romanzi russi finiscono male, sono una delle due cose che mi fanno piangere (insieme alle partite del Parma, ndr). Prima di morire, il 28 gennaio 1881 alle 8.36 di sera a causa di un enfisema polmonare, Dostoevskij riesce a diventare quello che voleva: il più grande scrittore vivente».

La prima edizione de Sanguina ancora ha un finale. Le successive hanno un passaggio in più. La prima si chiude con la scritta a matita su una scatola di tabacco della ditta Laferm custodita al museo Dostoevskij di San Pietroburgo: “28 gennaio 1881. Oggi è morto il babbo”. La grafia è della figlia Ljubov’ che allora aveva 11 anni. «Poi ho rivisto un passo del libro Un certo Dostoevskij di Pavel Kokin e ho trovato una frase più potente e ho voluto assolutamente aggiungerla». Una frase che dice così: “Racconta la figlia di Dostoevskij Ljubov’ che alla veglia funebre di suo padre, quando un inviato della corte di Alessandro II informa sua mamma Anna Grigor’evna che le era stata assegnata una pensione statale ed era stato deciso di educare i suoi figli a spese dello Stato, lei, Anna Grigor’evna, si alza tutta contenta per dare la notizia a suo marito, che era morto. In quel momento, ha detto Anna Grigor’evna, mi sono resa conto per la prima volta che avrei dovuto vivere da sola e che non avevo più un amico con cui poter condividere la gioia e il dolore”.

credito foto di apertura: “Paolo Nori (DSC_2324)” by Foread is marked with CC BY-NC 2.0.

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