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Allonsanfàn
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Speranza contro speranza. Il dolore di Nadežda Mandel’štam

Avevo promesso di non ricascarci. Invece sto leggendo Speranza contro Speranza di Nadežda Mandel’štam. Mi ero ripromesso di stare lontano dalla sofferenza: la contemplazione del dolore è masochismo in purezza quando non puoi in nessun modo alleviarlo; quando il crimine è stato commesso decine di anni fa. Una volta che ne hai contezza, conosciuti e compresi i fatti (Bulgakov diceva che i fatti sono la cosa più ostinata del mondo) e sei consapevole delle responsabilità, perché continuare ad avvoltolarsi nel dolore come l’insonne nelle lenzuola?

Diciamo subito che la colpa è di Wlodek Goldkorn. Ci tengo a precisarlo perché le sue “raccomandazioni di lettura” hanno la consistenza di una prescrizione medica. “Il libro deve trovarsi da chi ne ha bisogno” afferma Osip Mandel’štam nel racconto della moglie Nadežda, e mi rendo conto che proprio di libri come questo si ha effettivamente bisogno. Come Goldkorn aveva puntualmente annunciato, Speranza contro Speranza è un capolavoro di scrittura non solo un libro di memorie.

Speranza contro Speranza si può (si deve?) leggere a tre livelli, uno più doloroso dell’altro. Il primo riguarda il racconto della sua vita travagliata e di come Mandel’štam concepisse la poesia nel senso proprio del termine concepire: come la poesia facesse sentire la sua voce nella mente del poeta. È commovente seguire la vita quotidiana di questo uomo piccolo e fragile, pieno di coraggio e dignità – riconosciuto anche allora fra i più grandi poeti in lingua russa – passo dopo passo, dalla prigione all’esilio e poi, di nuovo, dalla prigione al campo di lavoro da dove non sarebbe più tornato. Senza soldi né mezzi di sostentamento, senza lavoro e senza la possibilità di lavorare, alla ricerca di una casa, un letto, un pasto, qualcosa per campare. Un “morto che cammina” guardato con fastidio e sospetto: è stato condannato, di certo è un criminale; è stato condannato, non c’è da fidarsi: può perderci tutti; è stato condannato, quindi è colpevole.

Nadezda Mandel’stam Speranza contro speranza Ravera

Il secondo livello di lettura riguarda la scrittura di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam, nata Khazina. Non conoscendo il russo posso leggerla solo nella traduzione proposta da Edizioni Settecolori. Quel che leggo mi lascia stupito. È sufficiente aprire il volume a caso per scoprire che è una modernissima scrittura di sottrazione che rasenta la perfezione.

Il terzo e ultimo livello è politico. Il più doloroso per chi in buona fede (ma oggi esistono ancora individui genuinamente in “buona fede” riguardo ai fatti dell’Unione Sovietica?) conservasse ancore vaghi motivi d’affezione per il mondo sovietico; il più spaventoso per chi, libero dai fumi della nostalgia, sappia riconoscere che il mondo russo dagli Zar a Stalin è sempre lo stesso. La linea del potere imperiale che dai Romanov conduce a Putin attraverso Lenin e Stalin si è interrotta solo negli anni dall’anarchia ai tempi di Eltsin.

Intendiamoci. A sgomentare non è la ferocia e neppure la follia della vita quotidiana nella Russia sovietica. Non molto è cambiato dalle Memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij. Per loro stessa ammissione i nuovi persecutori si sono limitati a perfezionare le performance della polizia zarista. Quello che prima sconvolge, poi avvilisce e infine esaspera il lettore di Speranza contro Speranza, è la testimonianza dei crimini compiuti contro il popolo russo. Chi conosce il Paese ritiene siano danni irreparabili. La delazione, il tradimento, il silenzio, la complicità figlia della paura, sono stati eretti a sistema. Creeremo un uomo nuovo, avevano detto, una nuova specie umana forgiata dall’obbedienza e dal conformismo. La promessa è stata mantenuta: “Non portare quel cappello, diceva sempre, Mandel’štam… non bisogna diversificarsi, altrimenti si finisce male”. L’uomo nuovo creato da Stalin assomiglia come una goccia d’acqua allo schiavo, il più antico nella scala evolutiva della Storia.

C’è chi sostiene che la discesa agli inferi di Osip ebbe inizio a causa dei versi dedicati a Stalin. Altri sostengono fosse iniziata assai prima. La scandalosa poesia fu scritta nel novembre 1933 subito dopo aver assistito alla carestia della Crimea. Mandel’štam riconobbe la paternità del testo e, dopo essere stato arrestato, si preparò a essere fucilato. Aveva declamato l’epigramma una sera in compagnia di una dozzina d’amici. Qualcuno (più d’uno?) l’aveva denunciato. Forse per averne un vantaggio immediato. O perché spia ingaggiata dalla polizia. O più semplicemente per il timore che altri lo precedessero precipitandolo nel ruolo di correo.

Secondo la moglie, Osip voleva morire. Come Majakovskij non sopportava più di vivere in un’enorme prigione? Di non poter parlare, scrivere, pubblicare liberamente? “Nello scegliersi il tipo di morte” scrive Nadežda “ Mandel’štam aveva utilizzato una magnifica qualità dei nostri dirigenti: il loro sconfinato, quasi superstizioso, rispetto per la poesia… Che hai da lamentarti? mi diceva. Solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome. In nessun altro Paese uccidono per motivi poetici”. (Oggi si è aggiunto l’Iran e ovunque allignino gli ayatollah; ma questo Osip M. non lo poteva sapere).

Veniamo all’epigramma. S’intitola Viviamo senza sentire sotto di noi il paese. Per quanto riguarda il “montanaro del Cremlino” faccio presente che la Georgia, terra natale di Stalin, è compresa tra due catene montuose.

Viviamo senza sentire sotto di noi il paese / a dieci passi le nostre voci sono già belle e sperse / e dovunque ci sia spazio per quattro chiacchiere / si dà una mezza conversazioncina / là ti ricordano il montanaro del Cremlino / le sue tozze dita come vermi grassi / come pesi di ghisa le sue parole esatte / se la ridono gli occhioni di blatta / e rilucono i gambali dei suoi stivali. / Attorno una masnada di gerarchi dal collo fino / i favori di mezzi uomini sono il suo trastullo / chi fischia, chi miagola, chi frigna / lui solo spauracchio e picchia / un decreto dopo l’altro elargisce come ferro di cavallo / a chi nell’inguine, a chi in fronte, a chi nell’occhio / o al sopracciglio / è una pacchia ogni esitazione che decreta / e un largo petto di osseta.

Ancora due cose prima di concludere. Comincio a detestare la categoria “memorie”. Ancor più la definizione di memoir: “narrazione che prende spunto dalla memoria emotiva di chi scrive”. Memoria emotiva è una definizione che più ambigua non si può: cosa c’è di più soggettivo, immisurabile e transeunte di un’emozione? Come è possibile, giusto per fare un esempio, considerare Se questo è un uomo narrazione che prende spunto dalla memoria emotiva di chi scrive?

Ultima considerazione. Con buona pace di Hegel e di Marx, c’è parecchio di comico nel mito della Storia. La Russia – luogo fisico e mentale per secoli simbolo in Europa della controrivoluzione reazionaria – una volta assunto il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche viene scambiata per la Shangri-La degli oppressi. L’applicazione in terra del pensiero di Karl Marx e Friederich Engels. Anche se nell’URSS non si trova traccia né di soviet né tantomeno di socialismo. Una spietata dittatura imperiale nata dalla controrivoluzione di ottobre regola i destini di milioni di uomini. Com’è stato possibile? Perché in tutto il mondo – sapienti e sprovveduti, analfabeti e raffinati pensatori – sono caduti nella trappola? Nonostante la polizia politica, le persecuzioni, la morte per fame, il sistema schiavistico dei campi di lavoro, le purghe nella società e nel partito, il patto Molotov-Ribbentrop, l’invasione della Polonia e della Finlandia, l’occupazione delle Repubbliche Baltiche, le periodiche campagne antisemite. Per tacere di quanto accadde dopo il 1945 ai disgraziati che ebbero la ventura di vivere nella “parte sbagliata” dell’Europa post-bellica.

Racconta ancora Nadežda Mandel’štam che a volte persino suo marito, il poeta perseguitato in quanto poeta, “affermava di voler essere come tutti gli altri, esprimeva il timore di poter rimanere fuori della Rivoluzione, di lasciarsi sfuggire per semplice miopia i grandiosi fenomeni che si verificavano davanti ai nostri occhi. Va ricordato che molti tra i miei contemporanei, e tra loro persone di grande valore come Pasternak, hanno provato qualcosa di simile… una funzione decisiva nell’imbrigliamento dell’intelligencija non erano state la paura e la corruzione – nonostante la loro massiccia presenza – ma la parola Rivoluzione“.

Mai innamorarsi delle parole. A meno che siano pronunciate da un poeta disarmato.

 

Nella foto di apertura, Nadežda Jakovlevna Mandel’štam. Non siamo riusciti a risalire a un copyright, se appartine a qualcuno ci contatti e la rimuoveremo

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