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Allonsanfàn
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Rassegnata considerazione sull’immaterialità del cinema (per di più chiuso)

Prendiamola alla larga. Ogni tanto si leggeva sul giornale un pezzo che attaccava così: “Cambia il volto del centro di Milano e i vecchi cinema lasciano il passo a negozi e megastore”. E poi il nome di una sala chiusa, sigillata peggio di una casa chiusa, via il Mignon e l’Excelsior, via l’Astra e il President, etc. etc. Da ultimo, ha ceduto l’Apollo, con i suoi interni escheriani, significativamente sostituito da un concorrente diretto in fatto di prime visioni (sui tablet, sugli smartphone), un emporio Apple.

Parlo del centro di Milano, e in particolare di Corso Vittorio Emanuele, perché lì, tra il Duomo e San Babila, si registrava una densità di sale tale da renderlo un paradiso per noi ragazzi – oggi sopravvivono solo l’Odeon ribattezzato The Space Cinema, e il piccolo Arlecchino, quello del fregio di Lucio Fontana sotto lo schermo.

Mi ricordo che nei primi anni Settanta ci si trovava tra compagni di scuola alle 7 di sera del sabato nel bar vicino al mega cinema Corso, ospitante adesso il brand giovanile Bershka. Divinavamo che pellicola scegliere da certi manifestini appesi a una parete, con le fotine e le schedine dei film in programma. Questo era il rito, se non avevamo fatto in tempo a leggere le recensioni di Giovanni Grazzini o più tardi quelle di Tullio Kezich.

Superstiti: il cinema Odeon

L’eminente critico Paolo Mereghetti rammenta che nel 1965 c’erano a Milano 137 locali i cui nomi nei tamburini dei quotidiani erano una sorta di abracadabra: Abadan, Abanella, Abc – nomi inzeppati di A, B e C per stare all’inizio dell’elenco sul giornale, problema che non riguardava le Prime visioni, le quali godevano di un riquadro privilegiato, come pure i cosiddetti Cinema d’essai, creature che fornivano opere a mezzo tra commercio e arte, per esempio il Rubino e poi le due salette del Centrale, in via Torino, o l’Orchidea, dietro Corso Magenta.

Questo per dire che la fisicità del cinema, minacciata dagli streaming immateriali di questi tempi – impennatisi poiché gli schermi sono ormai da mesi bianchi per emergenza pandemica – questa fisicità stava già andando in malora per solidi motivi commerciali se non per un’inarrestabile corrosione interna attiva da ben prima che i pipistrelli prendessero la tosse.

Copio incollo per mettere in chiaro il processo – omettendo di aggiungere l’ovvio: “al cinema il film si vede meglio” – quello che ha appena scritto qui Gabriele Nava: “E se per ogni opera che si consideri artistica contano il luogo e l’orario… coi palcoscenici da sempre vuoti e i cinema chiusi, niente più appuntamenti, corse per arrivare in tempo, partecipazione, insofferenza, bomboniere, solo l’onanismo del quando ne hai voglia, quando ti pare ma sotto il controllo di Padron Apple o Sky Atlantic o Netflix o Pornhub: tu paghi per essere libero ma solo con quello che ti servono in pasto…”.

L’accenno a Pornhub permette di notare che, nella demolizione dei muri del cinema così come l’abbiamo conosciuto, è crollato per sempre pure un baluardo della proiezione in sala, il locale a luci rosse, quello in cui per citare Tatti Sanguineti a proposito del vecchio Argentina mandava maggior lucore la porta sotto i cessi dello schermo stesso.

Immaterialità e sale chiuse per mancanza di pubblico convertito a nuovi supporti tecnologici o per contagio. Un futuro (forse) di nicchie, di riserve indiane, di cinema radical chic, detto in senso buono, fondati sulle promesse di qualità come l’Anteo (speriamo che tenga) dove, come in un palio di contrade morte, le salette si chiamano ognuna, pateticamente, come un cinema estinto: stasera vado al De Amicis, a vedere Anghelopuolos, no all’Obraz, che danno Le Troiane di Cacoyannis…

Precipitando dall’iniziale nostalgia – che non è neppure più quella di un tempo (copyright Simone Signoret) essendo io un briciolo realista sui processi e i “progressi” in corso e non precipitando nel dégoût da cinéphile di chi reclama l’ecran affumicato dalle Gauloises d’antan – precipitando a un dettaglio teorico, posso notare che è inutile chiacchierare e ricordare a vanvera. Torniamo per un attimo marxiani, muovendoci tra struttura e sovrastruttura, tra condizioni materiali e riflessi spirituali…

Le Grandi Sale della Nostra Giovinezza hanno cessato di esistere quando le pellicole spesse come le bretelle di un oste sono state sostituite dal digitale – e poveracci quei registi che oggi girano in 35 mm o in formati desueti, belli quadrati, guardando i quali su un tablet non abbiamo neanche l’amara soddisfazione di mormorare come una volta, alzando gli occhi al buio del soffitto: “Ma cazzo, hanno sbagliato il mascherino”. Ma guardiamo vicino. Appuntamento per ora al 27 marzo, anzi chissà.

E poi. In fondo il cinema è sempre stato il più immateriale dei mondi, soprattutto quando si fumava in sala: “…il fascio di pulviscolo luminoso che perforava il buio dal fondo della sala sino allo schermo, sorvolando le nostre teste. Quel pulviscolo era il film” (Giovanni Mariotti, che ha appena scritto per Adelphi Piccoli Addii).

 

Credit: “CiaoMilano. Milano, Fondazione Prada” by CiaoMilano is licensed under CC BY-NC-SA 2.0 e “Screens @ The Space Cinema – Milano Odeon @ Milan” by *_* is licensed under CC BY 2.0

 

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