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Allonsanfàn
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Pasternak e gli altri, uniti dall’abisso

“Anche più dell’affinità delle loro anime, li univa l’abisso che li divideva dal resto del mondo” (Boris Pasternak)

Quando pubblicherò queste noterelle molto probabilmente la scelleratezza compiuta dall’Università Bicocca sarà passata nel dimenticatoio. Altri e più gravi crimini incombono. Ma il primo (il secondo, il terzo?) clamoroso episodio di cancel culture avvenuto nel nostro Paese conferma il vizio provinciale d’importare il peggio del costume anglosassone e mai le pratiche virtuose.

Il piccolo episodio criminale riguarda le lezioni che Paolo Nori avrebbe dovuto tenere su Fëdor Dostoevskij. Diciamo subito che nonostante la simpatia per la “legge e ordine” dello Zar che manifestò negli ultimi anni della sua vita, difficilmente lo scrittore nato a Mosca nel 1821 e morto a San Pietroburgo nel 1881 avrebbe potuto iscriversi al partito di Vladimir Putin. Insomma, una storia di imbecillità talmente palese quella della Bicocca che al confronto i riposizionamenti di alcuni politici italiani sono limpidi come acqua di fonte. Un eccesso di zelo, ma nei confronti di chi? Un allineamento (per altro non richiesto) alle altre istituzioni culturali milanesi? O, più semplicemente, un attacco di conformismo che come ben sappiamo è malattia persino più letale del Covid 19?

Sia come sia, questa storia di ordinaria imbecillità mi ha fatto tornare in mente i post di qualche giorno fa. Persone, non so se più sprovvedute o più stupide, che criticano il boicottaggio che il mondo sta mettendo in atto. Cosa c’entra lo sport, l’arte e la cultura con la politica, dicono. Qualcuno di loro non si trattiene dal ricordare, come se ce ne fosse il bisogno, il contributo culturale versato (è il caso di usare questo verbo) dalla Russia al mondo. Oltre al già nominato Fëdor, citano Rachmaninov e Čajkovskij. I più colti per soprammercato pure Vasilij Vasil’evič Kandinskij. Mi guardo bene dall’entrare nella polemica generata dal boicottaggio di una cantante d’opera o di un saltatore con l’asta. Non mi interessa disquisire le scelte del sindaco di Milano Beppe Sala di interrompere la collaborazione tra il Teatro Alla Scala e il direttore d’orchestra russo e amico di Putin, Valery Gergiev. Sala, detto per inciso, ha fatto benissimo: parafrasando gli Stormy Six, gli amici degli amici devono sapere che da oggi in poi Putin troverà Stalingrado in ogni città.

Il tema questo articolo è la censura genetica. Non sono uno specialista di letteratura russa né tantomeno uno slavista. Chi mi legge sa che sono solo uno che legge. In tema di letteratura dell’Est le mie “persone di riferimento” sono Francesco Cataluccio e Wlodek Goldkorn. Quindi arrischio un commento che è solo una sensazione, pronto ad essere smentito da chi ne sa di più: la censura esercitata a partire dagli anni Venti in Unione Sovietica ha efficacemente forgiato “l’uomo nuovo”. Purtroppo questo uomo (questa donna) sovietico prima e russo poi non ha prodotto nulla di significativo, di eccelso o di innovativo a livello artistico. Mosca non è la capitale delle avanguardie, il luogo della sperimentazione, della ricerca e neppure del gioco. È la città del conformismo: sovietico prima, grande russo poi.

Fateci caso, ma il destino di ogni grande figura della cultura russa del Novecento – letterato, pittore, musicista – rientra in una di queste categorie: rifugiato in Occidente, morto in un gulag, morto suicida, costretto al silenzio, sottoposto costantemente al controllo poliziesco e alla censura

Per loro (e soprattutto nostra) fortuna la categoria più numerosa è la prima. Pensate a un grande russo del Novecento e penserete a una persona emigrata in Francia o in America. Dei vivi restano quelli che non potevano vivere altrimenti se non in Russia (Bulgakov, Pasternak…) e coloro che accettarono di subire il ricatto del terrore (Šostakovič…). Infinito l’elenco dei sommersi liquidati da una pallottola pietosa o morti di stenti in un campo di lavoro. Poi ci sono i suicidi. Tra loro spiccano coloro che avevano creduto nella rivoluzione e poi non poterono credere più in nulla.

Dicono gli artisti e chiunque si misuri con un lavoro creativo che la censura faccia bene. Che avere dei limiti da parte del committente ecciti in neuroni. Insomma un poco di censura aguzzerebbe l’ingegno e svilupperebbe un po’ di sana furbizia. Purtroppo in Unione Sovietica prima e nella Russia delle mafie di Stato poi, la censura ha impartito una lezione di formidabile efficacia: non pensare, conformati! non agire, segui il flusso! non chiedere, uniformati! non sperare, non c’è cambiamento.

Primo Levi ha più volte ricordato come l’essere anonimo, indifferenziato e indistinguibile, fosse la prima strategia di sopravvivenza nei campi. Sparire tra i molti. Diventare folla. Non essere, non esserci. Le prove di cancel culture che il mondo accademico anglosassone sta sperimentando sembrano guaiti di cuccioli al confronto dei ruggiti dei nipotini di Stalin. Ma, come sempre, l’importante è iniziare.

Foto in apertura: lo scrittore russo Boris Pasternak

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